REGGIO CALABRIA Ci sono momenti, in un’indagine, in cui le prospettive cambiano. Nel caso dell’inchiesta che avrebbe messo i magistrati della Dda di Bologna sulle tracce del tesoro del clan Iamonte, quel momento è una perquisizione a casa di Alberto Pizzichemi, imprenditore di stanza in Emilia Romagna ma con agganci e relazioni pericolose in Calabria (e non solo). Quando eseguono l’arresto dell’uomo nel 2018, gli inquirenti sono a caccia di materiale che possa aiutarli a ricostruire i suoi traffici. E fanno centro: trovano «appunti manoscritti contenenti numerosi riferimenti a vicende economiche di cui si ignorava l’esistenza». Uno apre uno sviluppo investigativo inedito. L’appunto cita «titoli di stato 16 mln USD», un credito – sintetizza il gip che ha disposto un corposo sequestro di beni a carico di Pizzichemi – «che l’attuale indagato vantava nei confronti del cugino».
Si tratta, per i magistrati, di «una complessa operazione finanziaria» che rimanda, una volta in più, alla capacità delle organizzazioni criminali di sfruttare sofisticati strumenti per trasferire somme ingenti. È questa l’ipotesi dell’accusa. Pizzichemi, con la collaborazione di un professionista deceduto, sarebbe «riuscito a organizzare il trasferimento di una somma di 15 milioni di euro su conti correnti istituiti in Svizzera presso Banca Zarattini». Per farlo avrebbe «formalizzato documenti contrattuali giustificativi del trasferimento di denaro sotto forma di prestito erogato in favore di una società svizzera cui sono riferibili quei conti correnti». Questa società, secondo gli investigatori, sarebbe riferibile proprio al socio deceduto di Pizzichemi. A erogare il prestito sarebbero, invece, «varie società straniere (una statunitense e altra con sede in Nuova Zelanda) di difficile completa identificazione». In questa nebulosa di società straniere si perde, stando alle parole del giudice per le indagini preliminari, la provenienza del denaro.
Non è l’unica stranezza: i magistrati, infatti, segnalano «un’anomala funzione di “garante” del finanziamento» che sarebbe stata svolta «da una fondazione religiosa che fa capo a un religioso di nazionalità congolese: organizzazione no profit già emersa in varie segnalazioni di operazioni sospette relative a trasferimenti di somme di denaro tra paesi stranieri con il coinvolgimento di soggetti italiani (persone fisiche e giuridiche)».
Ci sono tutti gli elementi per un giallo finanziario internazionale: la banca svizzera, i capitali di dubbia provenienza, la fondazione religiosa africana per ricoprire il tutto con una patina di spiritualità. Molto meno spirituali sono i soldi che girano nell’affare. E che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, Pizzichemi avrebbe versato tanto alla fondazione religiosa quanto a «vari professionisti intervenuti nelle fasi precontrattuali per la definizione dell’operazione di finanziamento». Dopo la morte del collaboratore, per Pizzichemi si pone il problema di essere accreditato dalla Banca Zarattini come soggetto «legittimato a disporre dei conti correnti della società» beneficiaria del “prestito”. Per questo, il gip dispone il sequestro dei conti svizzeri aperti nella filiale di Lugano «fino alla concorrenza di 15 milioni».
Nel Risiko di conti e società utilizzati dall’uomo ritenuto vicino al clan di Melito Porto Salvo uno dei passaggi chiave è l’acquisto di due centrali idroelettriche in Romania. Pizzichemi le avrebbe comprate attraverso schermi societari sofisticati, con la complicità di Gianfranco Puri, considerato suo complice (e finito agli arresti domiciliari nei giorni scorsi) e altri due prestanome, allo stato indagati. Sempre dalla perquisizione avvenuta il giorno dell’arresto (il 28 novembre 2018), sono state acquisite otto stampe in tedesco «che si rivelavano essere azioni al portatore di una società di diritto svizzero, pari al 75% del capitale sociale». Gli investigatori dopo una rogatoria richiesta dalla Procura di Bologna, hanno perquisito la sede della società e «sequestrato un contratto preliminare, datato 7 novembre 2017, in forza del quale la società svizzera si obbligata ad acquistare l’intero capitale della Alto Avisio srl che possedeva il 98% del capitale delle due società romene Vialtero Energy e Alto Energy cui fanno capo le due centrali idroelettriche». L’acquisto dei due impianti sarebbe stato pianificato, dunque, attraverso schermi societari, per celare la presenza di Pizzichemi nell’affare. Procedure sofisticate e passaggi necessari a sviare – è l’ipotesi – le possibili indagini. Sembra di risentire le parole di Nicolino Grande Aracri: quelle in cui ribadiva la necessità, per sé e il suo clan, di trovare «cristiani buoni», cioè colletti bianchi in grado di elevare le capacità finanziarie (e non solo) delle cosche, permettendo il salto di qualità nel business finanziario. Nel caso di Pizzichemi, l’operazione viene bloccata grazie alla documentazione rinvenuta il giorno dell’arresto e ai successivi approfondimenti investigativi. Dalle carte emergono i piani dell’imprenditore, che prende il controllo degli impianti, pur nascosto dietro a uno “schermo” societario, con il coinvolgimento – forse inconsapevole – di alcuni professionisti trentini insospettabili, tutti attivi nel campo delle energie rinnovabili. Uno dei business scelti dalle mafie per reinvestire capitali illeciti. Non l’unico, purtroppo. (2. fine)
Qui la prima parte: ‘Ndrangheta green, l’imprenditore vicino al clan voleva due centrali elettriche in Romania
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