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la ricostruzione

Quarant’anni di odio e la sentenza di morte pronunciata bevendo il sangue della vittima. «Ti vendicherò»

Gioffrè ucciso dopo la fuga al Nord (e dopo l’assassinio di sua moglie e suo figlio). La sete di vendetta della ‘ndrangheta non conosce confini

Pubblicato il: 03/07/2022 – 9:38
di Pablo Petrasso
Quarant’anni di odio e la sentenza di morte pronunciata bevendo il sangue della vittima. «Ti vendicherò»

REGGIO CALABRIA All’origine del “cold case” che racconta l’omicidio di Giuseppe Gioffrè, avvenuto nel 2004 a San Mauro Torinese, c’è una scena macabra che risale a 40 anni, quando prende forma un proposito di vendette che supera spazio e generazioni. È il 27 giugno 1964, Gioffrè ha appena ucciso due persone a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Sono Antonio Alvaro e Antonio Dalmato: si erano presentati nel bar-panetteria gestito dall’uomo per risolvere un problema commerciale. L’attività di Gioffrè faceva ombra a quella di suo suocero, protetto dalla cosca Dalmato-Alvaro. Il tentativo di farlo desistere dai propositi di ampliare i proprio affari finisce in un duplice omicidio. La scena macabra viene registrata dalle forze dell’ordine arrivate sul posto per i primi sopralluoghi. Un gesto che il gip del Tribunale di Torino – nell’ordinanza che dispone l’arresto per l’omicidio di Gioffrè di Paolo Alvaro, 57 anni, e Giuseppe Crea, 44 anni – definisce «sinistro e carico di conseguenze». Rocco Salvatore Alvaro, cognato di una delle vittime del 1964, si accosta al cadavere del proprio parente e ne beve il sangue pronunciando parole di vendetta: «Con questo gesto ti vendicherò». Quel comportamento – sono sempre parole del gip Stefano Sala – «aveva indotto la comunità di appartenenza ad attribuirgli l’evocativo soprannome di u vampiru». Di certo quella sete di vendetta non si è mai arrestata. Neppure dopo il duplice omicidio della moglie di Gioffrè e del figlio Cosimo, caso ancora irrisolto e finito negli annali delle cronache giudiziarie come “strage di Sant’Eufemia”.
Il giorno in cui si consuma quella prima vendetta, Gioffrè è in carcere per scontare nove anni di reclusione per il duplice delitto legato agli affari del suo bar. Una volta espiata la pena emigra a Torino: si sposa nel 1976, lavora in Fiat e nel settore dell’edilizia. In Calabria torna di rado. 

L’omicidio nel 2001 e l’intercettazione. «Qualche gioco di sopra, chissà»

Un fatto, però, ridà vigore alla sete di vendetta. Il 29 ottobre 2001 viene recuperato il cadavere di Giuseppe Alvaro (classe 1937), che in passato «era stato già sottoposto a misura cautelare e poi liberato in relazione alla strage di Sant’Eufemia. Giuseppe Alvaro era figlio di Francesco e fratello di Rocco Alvaro», l’uomo che aveva bevuto il sangue di una delle vittime del ’64. Le indagini per la morte di Alvaro fanno emergere una conversazione tra il fratello del defunto e sua sorella: i due «avevano convenuto che il fatto delittuoso potesse avere origine al Nord («… che qualche gioco di sopra, chissà!»), facendo verosimilmente intendere che l’evento offensivo potesse essere ricollegato alla spirale di violenza ricostruita in questa sede, reputando che il gesto criminale trovasse riferimento nella volontà di ritorsione maturata nell’animo di colui che si era rifugiato in Settentrione». Per gli investigatori «è in questo contesto che deve essere collocato» l’omicidio di Giuseppe Gioffrè. «Proprio in relazione ai fatti occorsi nell’anno 2001 – si legge nell’ordinanza – i famigliari della vittima, in quel caso si trattava di Giuseppe Alvaro», avrebbero «maturato l’impressione che il fatto dovesse essere ricondotto alle vicende verificatesi nei primi anni 60 del secolo scorso». Una nuova scia di sangue che condurrebbe, dunque, al colpo di pistola che ha posto fine alla vita di Gioffrè sulla panchina di un parco alle porte di Torino. Un omicidio pensato per «dare soddisfazione una volta per tutte ai propositi di vendetta maturati dagli esponenti della famiglia Dalmato-Alvaro e soprattutto riaffermare la protervia criminale del consesso mafioso che non riconosceva limite alcuno alla manifestazione della propria forza di prevaricazione». (p.petrasso@corrierecal.it)

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