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«Quale speranza contro i mostri della mafia? A proposito dell’ultimo romanzo di Pantaleone Sergi»

«La descrizione passa prevalentemente attraverso la dimensione familiare, anche tenera, tanto della mafia quanto di chi la combatte, mostrando quella superficie abbacinante che, però, lascia intuir…

Pubblicato il: 10/07/2022 – 17:31
di Alessandro Gaudio
«Quale speranza contro i mostri della mafia? A proposito dell’ultimo romanzo di Pantaleone Sergi»

È bene dirlo immediatamente: Il giudice, sua madre e il basilisco (Cosenza, Pellegrini, 2022), con cui Pantaleone Sergi dopo cinque anni ritorna in libreria, è un romanzo molto ben scritto ed equilibrato. Equilibrato nel descrivere, senza calcare la mano, il mondo della mafia calabrese. La descrizione passa prevalentemente attraverso la dimensione familiare, anche tenera, tanto della mafia quanto di chi la combatte, mostrando quella superficie abbacinante che, però, lascia intuire varie sfumature dell’inferno sul quale insiste. Nell’universo allestito da Sergi, «quando tutto era finito, tutto ricominciava» (p. 154), secondo una disposizione gattopardesca che più di un lettore ha scorto in questo come nel suo romanzo d’esordio (Liberandisdòmini, Cosenza, Pellegrini, 2017). Alla fine, la solidarietà criminale vince su quella familiare («il Sistema non subì altre scosse per i mutamenti così traumatici al vertice del locale di Mambrìci e si confermò una rete criminale invincibile», p. 161), ma, a ben guardare, sebbene siano cambiati i pupi ma non la commedia, non finisce proprio tutto.
Perché Sergi, senza mai adottare toni retorici, trova un flebile motivo di speranza per la Calabria, per certi versi personificandola nelle vicende e nei caratteri di alcune donne: tanto nella delicata disposizione alla naturalezza del loro sentimento quanto nella pervicacia di ciascuna di esse nel percorrere la strada prescelta. Tuttavia, quasi certamente quella remota speranza che chiude il romanzo è mal riposta; nondimeno, chiude il cerchio che si era aperto sul desiderio di Marelina, la protagonista, come se si trattasse del riflesso, tenue ma comunque ancora necessario, della volontà della ragazza dalla quale nasce il romanzo, quella di fuggire dalle trame maledette di un luogo invivibile: «Si convinse così a tagliare i ponti, buttandosi alle spalle una sporta d’afflizioni e mai se ne pentì. Partire era già vivere» (p. 27). Se consideriamo questa simmetria dal punto di vista della struttura del romanzo, la speranza che lo chiude, per quanto forse poco plausibile, interviene nella costruzione della storia in maniera davvero magistrale e consente di apprezzare il modo in cui Sergi sia riuscito a sposare le sue diverse anime: quelle di giornalista e di storico, ben conosciute ai più, a quella di romanziere. L’anima del romanziere sembrerebbe rappresentare meglio, insomma, la quadratura di quel cerchio di cui si è appena detto. Quale modo scelga per farlo è presto detto.
Tutta la rappresentazione del mondo soffocante della piattaforma Mambrìci (paese immaginario ma, con ogni evidenza, non troppo distante dalla Limbadi del calabrese Sergi) insiste su una dimensione simbolica che è necessario attraversare qualora si voglia comprendere e superare «il murmuro generale» (p. 19), questo spazio strategico, pieno di parole contorte e allusive, all’interno del quale le cosche conducono i loro affari sporchi. All’universo del basilisco, quello di don Borrello, si contrappone un potere avverso, incarnato dal giudice, Enrico Zanda, e da sua madre, la già citata Marelina. Dunque, dalla giustizia e dalla letteratura, intesa, in generale, come arma, come disposizione verso la realtà mediante la quale far fronte al tempo sempre uguale del mito, di quello mafioso in particolare.
E non è forse vero che il romanzo, se serve a qualcosa, serva proprio a questo? Non è forse decisivo il suo apporto proprio per superare la struttura pietrificata della realtà imposta dal basilisco? È utile a destrutturare, a demitizzare l’armamentario simbolico e la capacità d’azione di un sistema mafioso che, ogni giorno di più, fa sì che si parli di sé, ma secondo le coordinate che esso stesso impone. Proprio per far fronte a questo nucleo simbolico raggrumato e stantio, ma senz’altro coeso, è necessario il romanzo, è necessaria la poesia, è necessaria la letteratura. Perché Sarino Borrello magari può tutto ma certamente, non avendo un’anima, non potrà mai diventare poeta (p. 94).
A ben guardare, la letteratura è il tumore nella testa di don Borrello, la piaga nel corpo vivo del basilisco: «Don Borrello, gli avevano assicurato, era un basilisco, sguardo mortale e soffio velenoso, come le tarante con la cresta rossa che nascevano sotto il sole d’agosto, uragano di fuoco. Nelle sue mani era concentrato il potere di vita e di morte. Ora mostrava, invece, gli occhi piccoli disarmati e opachi che trascuravano la sua fama. Non c’era, tuttavia, da fidarsi dall’aspetto dimesso e un po’ goffo che la sua grande capacità era proprio quella di presentarsi senza alcuna eleganza e innocuo e poi avventarsi di scatto sulla preda» (p. 136).
Alla visione rovesciata che il boss ha della vita, il romanzo ne oppone una recta che passa dalla necessità di immaginare e quindi ancora di sperare, come nel passaggio in cui si evoca la figura di Pietro Lazzaro («Al liceo Berchet [Enrico] aveva avuto un professore d’italiano ch’era nato in un villaggio calabrese. Si chiamava Pietro Lazzaro e affascinava i suoi giovani allievi raccontando – tutto sembrava una favola… – che da bambino portava il gregge a pascolare e, stando seduto su uno scoglio per avere tutta la mandria sotto controllo, divorava le parole dei libri che riusciva a farsi imprestare nel suo villaggio di mille anime dove erano in pochi ad avere frequentato la scuola. Da grande era diventato traduttore e narratore e aveva scritto un romanzo, che ebbe successo e gli diedero un premio importante, che nel titolo portava il nome del mitologico piccolo re dei serpenti, più velenoso di un guardapasso, il cui sguardo magnetico e paralizzante poteva farti scomparire: insomma un basilisco. Un mostro che con la sua bava poteva avvelenare fiumi e laghi» (p. 136), oppure nelle parole che lo stesso Enrico rivolge a Luisanna, la nipote di don Borrello di cui il giudice s’innamora: «Facciamo passare del tempo, Luisanna. Quando salgo a Milano, ogni volta che salgo, se tu lo vuoi ti cerco. Ho bisogno di vederti e di parlarti. Ho necessità di immaginare, insomma voglio ancora sperare…» (p. 151).
La prossimità e l’amore, che poi non sono altro che sinonimi di ciò che è letteratura, consentono di scorgere ciò che fino a un momento prima si è ignorato perché era inimmaginabile. La letteratura, nella misura in cui nutre la coscienza e alimenta la giustizia, è la flebile fiammella di un cerino, una speranza tenue, in fin dei conti, ma che non possiamo trascurare, specialmente se ci fermiamo per un attimo a considerare il fatto che non ci resta molto altro.

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