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«Una sanità “malata” di disorganizzazione»

Ricoverato in un ospedale di Cosenza, Emanuele Giacoia, voce indimenticabile di “Novantesimo minuto”, sta vivendo ore difficili ma non tanto e non solo per gli acciacchi che ne hanno determinato i…

Pubblicato il: 11/07/2022 – 8:42
di Matteo Cosenza*
«Una sanità “malata” di disorganizzazione»

Ricoverato in un ospedale di Cosenza, Emanuele Giacoia, voce indimenticabile di “Novantesimo minuto”, sta vivendo ore difficili ma non tanto e non solo per gli acciacchi che ne hanno determinato il ricovero: si è beccato un batterio ospedaliero e, ciliegina sulla torta, è caduto dal letto procurandosi la rottura di una vertebra. Me ne parla, preoccupatissimo, il figlio Valerio che allarga lo sguardo: «E meno male che ci siamo noi, figli e famiglia, ma vedo tanti poveri cristi abbandonati nei loro letti». Mi sovviene il ricordo di altre cadute e altri batteri. Anni fa l’amministratore del giornale in cui lavoravo, operato al cuore in uno degli ospedali collinari di Napoli, rischiò di morire poco dopo l’intervento per una caduta dal letto in quel momento privo di una delle due sbarre di protezione. Quanto ai batteri (un incubo, sia chiaro, negli ospedali del Sud e del Nord) i ricordi sono tanti, molto triste e recente quello di un amico che, pur colpito da malanni vari, ha dovuto affrontare una fine atroce per il batterio entrato nel suo corpo in un nostro ospedale, e soprattutto mi rimbombano nella testa le raccomandazioni che uno scrupoloso medico di famiglia dispensa ai suoi assistiti: ricoveratevi solo in casi indispensabili.
Sono appena rientrato da un ospedale del Nord per un intervento non preoccupante. Per lo stesso mi sarebbe toccata un’interminabile lista di attesa nell’ospedale pubblico locale, ma avrei eliminato preoccupazioni e fastidi molto celermente con più di quindicimila euro – dodicimila per il chirurgo – in una clinica privata. Ho preferito scegliere un ospedale con eccellenza nel campo che mi interessava. Visita dal medico, una telefonata alla caposala del reparto e lista di attesa, abbastanza breve. Ricetta del mio medico di famiglia con tre parole – ricovero in… – e null’altro se non la documentazione raccolta nel tempo e da mostrare nel prericovero. Naturalmente spese zero, neanche un ticket, solo quelle del viaggio.
Quello che ora sto per raccontare non è un atto di accusa ai medici e al personale sanitario della mia città e del mio Sud, perché – ed i primi a dirlo sono i sanitari del profondo Nord – i medici di valore ci sono dappertutto e dalle nostre parti sono tanti e ci vengono pure invidiati, ma la semplice constatazione che la “nostra” sanità è malata di disorganizzazione. Lì il miracolo avviene perché l’organizzazione è perfetta, c’è sincronizzazione tra i reparti e gli operatori, ognuno sa quello che fanno gli altri e tutti cooperano per il miglior risultato in termini di efficienza, prestazione e produttività.
In quel reparto, solo nelle nove sale operatorie di quel reparto, l’anno scorso hanno effettuato seimila interventi. Nella giornata di prericovero ti rivoltano come un calzino. Il giorno dopo ti presenti alle nove di mattina e attendi fuori dal reparto che ti chiamino per assegnarti il tuo letto. Nel frattempo vedi i lettini con malati che escono in direzione delle sale operatorie e altri che ritornano: una catena di montaggio. Quando arriva il tuo turno, ti chiamano e ti portano nella stanza ma ci resti appena il tempo di appoggiare la valigia senza disfarla, spogliarti, infilare il camice che ti danno loro e sdraiarti sul letto. E subito parti alla volta delle sale operatorie che poi sono “una” sola: entri attraverso un oblò rettangolare con un collaudato spostamento dal tuo lettino a quello operatorio in un’enorme sala nella quale sono parcheggiate con leggere separazioni movibili le nove postazioni operatorie dotate, ognuna, di tutta la strumentazione e la tecnologia più avanzate. Operato, torni nella tua stanza e da questo momento attorno al tuo letto c’è una processione, non di familiari (ne entra uno solo di pomeriggio e per un’ora) ma del personale sanitario di ogni ordine e grado. Prima visita alle cinque di mattina e non si finisce più con infermieri, addetti alle pulizie, medici, caposala fino a quasi mezzanotte, e se premi il pulsante che penzola dal braccio che serve per sollevarsi, in pochi secondi, meno di un minuto, ecco che entra qualcuno dalla porta. Aggiungo un particolare non da poco: ti spiegano tutto, che hanno fatto, che ti faranno, che devi fare. Sei il paziente-persona. Prima non li conoscevi, per pochi giorni sono al tuo servizio, poi, sperabilmente, non li vedrai più.
Ho chiesto a uno di loro: come è che siete così organizzati? di chi è il merito, di chi amministra, della caposala, dei medici, degli infermieri, di chi? forse di tutti? Mi ha risposto: l’ultima che ha detto, dall’alto al basso, noi lavoriamo così.
La chicca finale è quando mi hanno dimesso. Avevo chiesto la cartella clinica, il medico ha risposto: se vuole gliela mandiamo ma tenga conto che ha un costo, veda prima la lettera di dimissioni che ora le consegno e le illustro nel dettaglio. Altro che cartella clinica! Un documento di più pagine con tutte le informazioni su ciò che si era fatto compresa una pagina con i nomi di tutto il personale che mi ha operato, e un vademecum di una precisione assoluta sul dopo-dimissioni. Infine, tre giorni dopo via mail mi è arrivato il risultato dell’esame istologico.
Voglio credere che io, assolutamente senza conoscere nessuno, sia stato toccato dalla buona sorte e che abbia goduto di attenzioni piovute da un cielo ben disposto nei miei confronti, ma ciò era normale per tutti gli altri pazienti. Ecco, pazienti-persone: ogni sera un addetto dopo aver descritto il menù raccoglieva gli ordinativi per la colazione, il pranzo e la cena del giorno dopo. E, detto tra noi, la cucina non era male.
Tornando nella mia amata città, nel mio adorato Sud, da dove non andrò mai via, ho pensato alle barelle del Cardarelli, ai medici e agli infermieri picchiati, alle interminabili liste d’attesa, ai ticket che si esauriscono prima della metà del mese e a tutto quello che sappiamo. Ma anche a Giacoia o all’amico perso per un assurdo batterio che stava dove non dovrebbe mai stare, e sento tanta tristezza perché Italia è quell’ospedale dove sono stato e Italia sono i nostri ospedali, i medici sono buoni lì e sono eccellenti da noi. Come si raddrizza il “legno storto”? O fa comodo tenerlo così?

*giornalista (articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno)

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