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«Basta con gli attacchi scomposti alla magistratura»

«Ho letto ieri, come tanti di voi, sul quotidiano online “Corriere della Calabria” https://www.corrieredellacalabria.it/2022/07/14/convegno-al-vetriolo-delle-camere-penali-in-calabria-metodo-…

Pubblicato il: 15/07/2022 – 13:38
di SANTO MELIDONA*
«Basta con gli attacchi scomposti alla magistratura»

«Ho letto ieri, come tanti di voi, sul quotidiano online “Corriere della Calabria” https://www.corrieredellacalabria.it/2022/07/14/convegno-al-vetriolo-delle-camere-penali-in-calabria-metodo-staliniano-video/, il resoconto del convegno delle Camere penali calabresi che si è tenuto, nella mattinata del 14 luglio a Lamezia Terme. Ho sempre avuto ottimi rapporti con i singoli avvocati e ho sempre ritenuto che la loro professione assuma carattere di centralità nell’esercizio della giurisdizione.  Ho sempre avuto il massimo rispetto degli avvocati e della loro funzione e sono stato ricambiato (credo) di analoghi apprezzamenti di stima da part di tanti di loro.  Ma quello che ho letto ieri mi induce a modificare seriamente il mio punto di vista sul rapporto magistratura/avvocatura in Calabria e mi desta più di un’inquietante riflessione (che in buona parte terrò per me) sui veri motivi di tale agitazione.  L’esordio è del tipo “la mafia fa schifo” (“le camere penali calabresi e le camere penali italiane sono contro la criminalità organizzata, senza se e senza ma”), tanto di moda qualche anno fa in Sicilia (e sappiamo anche con quali esiti).  Nulla da dire: slogan efficacissimo e ovviamente condivisibile. L’abbrivio è altrettanto ecumenico: l’articolista accenna ad una ricerca di dialogo con la magistratura (da parte dell’avvocatura) anche se, da quanto è stato detto “i magistrati si sottraggono” a questo dialogo.  Il tutto, ovviamente, “a tutela della libertà dei cittadini”.  Fatte queste premesse, partono le bordate, obiettivamente travalicanti ogni limite di continenza e di decenza (anche lessicale).  Un importante avvocato ha evocato contesti bellici, accennando a un fortino, evidentemente sotto assedio (“Assistiamo a una difesa d’ufficio da parte di un gruppo numeroso in Anm che è l’area che ha preso le difese di tutti senza voler comprendere se i penalisti calabresi sono quelli che si sono agitati più di ogni altro per rimuovere l’acqua stagnante. Non si vuol capire che c’è qualcosa che non va in Calabria e si alza lo spettro della difesa corporativa”) e denuncia questa sfida “contro la quale è necessario armarsi e difendersi … perché non possiamo stare quieti”. La ridotta dell’Anm rifiuta ogni confronto  (o di arrendersi?): secondo quel legale, l’avvocatura ha chiesto un confronto con i magistrati, “un confronto che non c’è stato, fino a oggi, e che non ci sarà ancora ulteriormente perché sono talmente chiare le nostre idee e le pretese che avanziamo, che non è necessario spiegare ulteriormente il contenuto. E qui sorge un problema, non abbiamo con chi conversare. Perché si sottraggono i magistrati”.  Poi – rivelando la vera ed effettiva ragione di questa iniziativa – parte l’attacco al vero obiettivo della chiamata alle armi: il processo Rinascita-Scott, “un processo che avrebbe dovuto togliere la ribalta anche a Giovanni Falcone … Un processo formato da 16mila pagine, 388 volumi, che dura ormai da 230 udienze, del quale non si conosce il numero degli imputati perché questo processo è costituito dalla riunione di 136 procedimenti, con la presenza di tre avvocati che assumono le competenze di circa 250 avvocati che però non frequentano quel processo perché non è frequentabile. Non si può pretendere che un avvocato chiuda uno studio per due anni e mezzo. E chi non l’ha pensato prima ha attentato ai diritti della difesa”. Non conosco nulla dei contenuti tecnici di quel processo, salvo occasionali informazioni letti su organi di comunicazione, ma la pretesa che un processo non si debba  fare solo perché le sue dimensioni  sono gigantesche è veramente inaudita.  I meno giovani di noi ricorderanno la protesta degli avvocati palermitani contro il maxiprocesso di Palermo: anche in quel caso si denunciava la mastodonticità del processo, la difficolta per i legali di seguire il lavoro “ordinario”, la vulnerazione  dei diritti degli imputati (asseritamente) non adeguatamente valutabili da parte della corte giudicante.  Ebbene, si sarà posto l’esimio avvocato la domanda che se il processo Rinascita–Scott ha tale consistenza sarà perché il magma affaristico-mafioso in cui si sviluppano i fatti oggetto d’imputazione sono anch’essi di dimensioni esorbitanti?  L’avvocato questa domanda non se l’è posta: sarebbe utile e interessante che se la ponessero i cittadini di questa regione.  Il presidente della camera penale di Vibo, poi, denuncia il fatto che qui in Calabria “a prendere posizione per il processato, per i diritti dei cittadini si rischia di essere accomunati alla mafia, alla ‘ndrangheta. La paura in tutti noi è che alzare la voce o non girarci dall’altra parte significa essere conniventi … da troppe parti della magistratura è stata vista come un territorio di battaglia, quasi, come ha scritto qualcuno, come una riserva di caccia dove è facile fare carriera a discapito del cittadino”.  La risposta da dare a quell’esponente dell’avvocatura è semplice: nessuno può pensare che vi possano essere riserve di giurisdizione.  In questa regione sono stati indagati, arrestati e condannati numerosi magistrati. L’azione penale è obbligatoria così come le indagini penali, in presenza delle condizioni di legge, sono obbligatorie.  O pensa quel professionista  che l’avvocatura debba essere esentata dalla giurisdizione?  O pensa quel professionista che gli avvocati, tutti gli avvocati, siano stati sempre corretti e ossequiosi della legge e dei principi deontologici?  L’accertamento delle responsabilità penali finché ci sarà questa Costituzione non potrà che essere valutata nei processi; chi promuove quei processi si assume la responsabilità professionale ed eventualmente disciplinari per le sue determinazioni ma questo è il perimetro invalicabile delineato dalla Costituzione e dalle leggi per il controllo di Giustizia, non quello. Sulla base di quali elementi, poi, il presidente della Camera penale di Vibo, sollecitando l’applauso della claque,  esterna proclami da comizio definendo quel processo come “la summa delle storture della malagiustizia”, accusando così indiscriminatamente e immotivatamente prima di tutto il collegio giudicante e poi il gruppo dei pubblici ministeri impegnato in quel processo, senza indicare quale vulnerazioni dei diritti delle difese sia stato consumato da parte di quegli organi della magistratura? L’aggressione (ovviamente verbale) è soprattutto da intendere al collegio giudicante di quel processo perché appare chiaro che quel processo è il reale argomento del convegno. Ed infatti, il professionista prosegue in termini più incalzanti e denigratori dell’autonomia della professionalità di quel collegio giudicante,  ponendosi (in termini che vogliono essere retorici) la domanda se “qui nel nostro Distretto, nel Distretto di Catanzaro, i giudici siano tranquilli? Ce lo possiamo dire in maniera sincera? Pensiamo che il giudice possa essere tranquillo a giudicare con serenità un processo di mafia?”, Domanda alla quale rende la conseguente e scontata risposta: “No! Bisogna ripartire da questo: rivendicare maggiore autonomia del giudice perché è in quella maggiore autonomia che si desta la nostra libertà”), offrendo così il destro al presidente della Giunta dell’Unione camere penali e al suo logorato cavallo di battaglia: la separazione delle carriere come panacea per i danni della malagiustizia.  Da un piano più generale si scende (o si sale) quindi all’attacco ad personam.  Il presidente della Camera penale di Palmi, evocando uno scenario da dittatura giudiziaria, riferisce di un “gestore spregiudicato dell’emergenza calabrese” che fino a qualche tempo addietro ha governato Reggio Calabria producendo macerie non ancora rimosse dal terreno.  Analogo dittatore, anzi analogo “gestore spregiudicato dell’emergenza” si sarebbe insediato a Catanzaro per devastare anche questo immacolato distretto.  Infine, il coordinatore delle camere penali calabresi, sintetizza le moderate e sommesse critiche sin qui illustrate, sparando un’ancora più violenta bordata, dolendosi che vi è un problema di apporto culturale e dicendo che “con questa gente io credo che sia difficile, impossibile dialogare. Quindi noi dobbiamo portare alla luce quella magistratura libera, indipendente che oggi è soffocata da questo metodo staliniano che abbiamo in Calabria”.  Vi garantisco che, se fossi stato presente a quel convegno, a quel punto avrei preso la parola invitando quell’avvocato a riservare le parole “questa gente” ai suoi più stretti familiari. Noi non siamo “questa gente”, siamo magistrati della Repubblica! La mistificazione dei dati diventa poi clamorosa quando fa lievitare l’organico della Dda di Catanzaro addirittura a 37/38 componenti, una macchina da guerra costituita anche da “tutta la p.g.  che hanno alle spalle … tutto l’apparato, pubblico e segreto, e la stampa che non a caso, al di là dell’agguato di Rai3, oggi ha disertato l’aula”.  Posso garantire all’esimio professionista che la magistratura calabrese non ha dietro di sé alcun apparato, meno che mai “apparati segreti”, che vanno ricercati – come certamente non gli sfuggirà – in ben altri settori della società. 

Più sobriamente (si fa per dire), il presidente del COA di Catanzaro invita tutti a denunciare «per sollecitare l’intervento del Ministero. A Catanzaro è arrivato il momento di attivare meccanismi di controllo. Le ispezioni ministeriali spesso finiscono a tarallucci e vino … riusciamo a raccogliere anche in una settimana, tanti di quei provvedimenti anche contraddittori tra di loro, e a volte posso definirli anche disumani che vanno sia dall’applicazione della misura cautelare ma anche dal diniego di partecipare al funerale di un proprio caro perché sussistono pericoli inimmaginabili”.   Ebbene, lo facciano, lo facciano sempre e comunque se ritengono che vi siano i presupposti; denuncino pure.  I magistrati non si sottraggono (e non si possono sottrarre) alle loro responsabilità, perché lavorano alla luce del sole.  Denuncino pure, ma la smettano con questi attacchi scomposti, mascherati da ricerca di dialogo.  Sull’esercizio della giurisdizione nessun dialogo è dovuto e nemmeno sarebbe legittimo.  Si può discutere dell’organizzazione dei processi, dei protocolli da applicare per una migliore e più efficiente disciplina del lavoro giudiziario, ma non dei contenuti dei processi, sulle scelte del pubblico ministero di esercitare  in un certo modo l’azione penale, meno che mai sulle determinazioni dei magistrati giudicanti, sottratti ad ogni interferenza che non siano gli ordinari mezzi di impugnazione e la corretta critica liberamente esercitabile da ciascun cittadino nei limiti di cui all’art. 21 Cost.  Il fatto che un gruppo associativo abbia dichiarato un’apertura al dialogo mi aveva trovato, nei giorni scorsi, pur a fronte del violento comunicato delle camere penali calabresi, tutto sommato favorevole.  L’esito del convegno di Lamezia Terme mi ha però persuaso che in questa fase, con questi termini e su questi presupposti nessun dialogo sia possibile e che a queste forme inaccettabili di aggressione si debba rispondere in un solo modo: con il lavoro svolto con il massimo della serietà e dell’impegno e nel rispetto assoluto delle forme e dei diritti garantiti dalla Costituzione e dalle leggi!  La critica, che quando è correttamente esercitata è apprezzabile ed anzi stimolatrice di dibattiti costruttivi, cessa di essere tale quando affiorano le reali motivazioni di queste iniziative: l’attacco a quella parta della giurisdizione calabrese che sta coraggiosamente  e con impegno strenuo portando avanti la più formidabile forma di contrasto a fenomeni di illegalità che pervadono questo territorio, sfiorando (anzi colpendo), evidentemente  santuari e centri di potere che non possono restare inerti e non provare a reagire».  

* Sostituto procuratore di Lamezia Terme

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