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«Il bel René, l’ultimo conte di Montecristo »

Quando lo incontrai per la prima volta, nel 2004, al supercarcere di Voghera, Renato Vallanzasca Costantini apparve con la baldoria tipica del suo continuo peregrinare in galera , consapevole di e…

Pubblicato il: 16/07/2022 – 12:52
di Mario Campanella
«Il bel René, l’ultimo conte di Montecristo »

Quando lo incontrai per la prima volta, nel 2004, al supercarcere di Voghera, Renato Vallanzasca Costantini apparve con la baldoria tipica del suo continuo peregrinare in galera , consapevole di essere a metà tra disperazione e leggenda in un Paese che lo aveva espulso da decenni.
Sono passati 18 anni e il bel René, l’uomo dagli occhi azzurri che faceva innamorare flotte di ragazze, è ancora recluso, coscienza di colpa di un’Italia che ha perdonato, assolto e liberato chiunque ma che trova nella carne di Vallanzasca il totem della resistenza passiva.
Dei 72 anni che oggi ha, 48 li ha trascorsi dietro le sbarre, spesso alla deriva della sua pulsante personalità, ora viva e ora incontenibile.
Omicidi sulle spalle, poliziotti lasciati sul campo nel dominio di un territorio che gli restituiva soldi e potere, principe incontrastato di una Milano allora priva dell’imponenza ndranghetistica, il Sig Vallanzasca è l’ultimo conte di Montecristo rimasto in vita, seppure eternamente colpevole.
Colpevole certo, a differenza di Edmond Dantes, ma continuamente evasore e puntualmente catturato, tra istrionismo e realtà.
La sua “etica”, però, è la discendenza di una tradizione banditistica, che risparmiava donne e bambini, che organizzava soggiorni di lusso per i sequestri lampo ma legittimava lo scontro armato con la polizia come espressione di una guerra tutta soggettiva.
Aveva 10 miliardi di lire in contanti, metà dei quali provenienti dal sequestro di Emanuela Trapani, quando il 1976 raggiunse dalla Francia Santiago del Cile, per trattare con il regime di Pinochet il suo esilio dorato.
Era andato personalmente a casa Trapani, mi disse, per concordare con il patron della Rinascente la cifra esatta e quella da dichiarare (un miliardo) alla stampa.
Milanista, aveva adocchiato Emanuela proprio perché la Gazzetta dello sport aveva annunciato che il commendatore voleva acquistare l’Inter.
Non mi confermo mai, né a Maria Rita Parsi che guidava la nostra missione, il coinvolgimento emotivo e sentimentale di Emanuela, anche lei rimasta affascinata dalla sua tenebrosa bellezza.
L’Erostrato baldanzoso e meneghino, che conosceva verbi e transizioni, doveva sfidare la sua perversa antisocialità e così, da uomo più ricercato d’Italia, si sedette comodo sugli spalti a vedere la finale di Coppa Davis che teneva inchiodata un’intera nazione.
Del resto, era proprio simile, per molti versi, ad Adriano Panatta. Stesso anno di nascita, stessa folgorante bellezza, vocazione simile all’estro.
Non si fidò del regime cileno, Renato, forse coperto e aiutato da sobillatori esterni, pronti a sorreggere la sua tracotante pazzia, iniziata nella più tenera età, con un fratello morto e lo stigma del predestinato.
A nove anni aveva liberato i leoni del circo, proprio perché la sua ambizione perpetua, oltre alla ricchezza, era un’assurda e impossibile libertà.
Era legato alla provincia di Cosenza e fu a Diamante, nel ’77, che vide per l’ultima volta, da latitante, il figlio, destinato a cambiare cognome e a sparire dalla sua vita per una necessaria catarsi.
Piangeva Vallanzasca pensando a quel bambino divenuto uomo e a quello che sarebbe potuto essere se avesse scelto di fare l’impiegato nella vita.
La fida Antonella, amica di una vita, lo sposò dopo il matrimonio da ragazzo celebrato con Francis Turatello come testimone.
Quella Milano città aperta dei colpi fatti in sordina oggi non esiste più.
Non partorisce più figli erranti come il bandito René, ossimoro della natura, criminale e contemporaneamente gentiluomo, destinato a soccombere alla leggenda infinita di quegli occhi profondi nascosti per sempre dalle catene.

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