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Il pentito Guastalegname e l’omicidio del tabaccaio: «La cosca voleva che uccidessi tutti i testimoni»

«Ci sono due innocenti che hanno preso 30 anni», ha raccontato nel maxi processo. La promessa di aggiustare le cose in Cassazione grazie a Pittelli e l’arresto a Lamezia con la colomba pasquale imb…

Pubblicato il: 20/07/2022 – 6:57
di Alessia Truzzolillo
Il pentito Guastalegname e l’omicidio del tabaccaio: «La cosca voleva che uccidessi tutti i testimoni»

LAMEZIA TERME Gli avevano detto che l’avvocato Pittelli era caro ma riusciva a “tingere”, ossia pagare i presidenti. Che aveva amicizie con i presidenti dei tribunali, in Corte d’Appello e in Cassazione. “Un altro avvocato che, dicevano, ti sistema tutti i processi in Calabria è Stilo. Di Stilo si diceva che sapeva delle indagini prima che ti arrestassero”.
E’ iniziato ieri pomeriggio l’esame del collaboratore di giustizia Antonio Guastalegname, 54 anni, originario di Vibo Marina ma trasferitosi in provincia di Asti dal dicembre 1999. Il pentito, rispondendo alle domande del sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Antonio De Bernardo, ha raccontato, in due ore e mezza di esame, quella che è stata la sua parabola criminale da Vibo al Piemonte. Una parabola che non si esaurisce nel racconto di un pomeriggio ma proseguirà anche nei prossimi giorni.

L’incontro con Nazzareno Colace

Partito come imprenditore con una impresa di pulizie che, ha raccontato Guastalegname, aveva appalti nelle scuole, nei villaggi e anche alla Capitaneria di porto, l’uomo si è trovato pieno di debiti a causa del vizio del gioco. Conosceva Nazzareno Colace al quale chiese dei soldi. “Fu prestito a usura”, racconta il collaboratore che a dicembre 1999 se ne va ad Asti a lavorare per una ditta. Qui stringe rapporti con un gruppo di sinti italiani per conto dei quali faceva il ricettatore. Quelli rubavano nelle ville e lui ricettava televisori, materiale edile, computer.
Nel 2000 ritorna in Calabria perché “mia figlia stava male” e qui torna a incontrare Colace il quale lo tranquillizza sul problema dei debiti. Gli chiede di procurargli una macchina per mettere tutto a posto. “Gli trovai una Polo”, dice il collaboratore.
Agli inizi degli anni 2000 Guastalegname non faceva solo il ricettatore per i sinti ma aveva creato un traffico di stupefacenti tra Calabria e Piemonte grazie alla cocaina che gli forniva suo cugino Giuseppe Comito.
Lo beccano nel 2002 a Lamezia Terme, su un treno: tra i bagagli aveva una colomba pasquale piena di polvere bianca. Tra carcere e domiciliari si fa otto mesi, poi riesce a godere dell’indulto.
I rapporti con Colace, che aveva aperto una ditta a nome del fratello, riprendono nel 2010. Sono rapporti d’affari e a un certo punto Colace “mi disse se volevo un fiore”, cioè una dote per entrare nella consorteria che “comandava a Vibo Marina” ed era capeggiata da Pantaleone Mancuso detto “Luni Scarpuni”.
Ma Guastalegname dice di no: “Io mi consideravo un cane sciolto e non volevo dipendere da nessuno”. “Io di Nazzareno Colace sapevo che era un pezzone grosso vicino a Pantaleone Mancuso”. A Vibo Marina, dice il collaboratore, erano una squadra: Colace, Scarpuni, Mimmo Polito, anche Peppone Accorinti.
Il pm chiede come facesse a sapere che questa “squadra” comandava su Vibo Marina. “Io di Vibo Marina sono – risponde Guastalegname – ho vissuto sempre in mezzo a loro”.

Il cambio ditta che interessava anche a “zio Luigi”

Nel 2012 il cugino Giuseppe Comito viene arrestato nell’ambito dell’operazione Gringia che contempla la faida di Stefanaconi tra Patania e Piscopisani. Nell’estate 2013 Guastalegname torna in Calabria e Nazzareno Colace gli si riavvicina. Gli racconta che l’azienda che aveva prima gli era stata sequestrata e lui aveva una ditta per il recupero del ferro a nome del figlio Ivan.
Nazzareno Colace gli chiede del cugino che era in prigione. Guastalegname capisce che l’interesse per il cugino nasce dal timore che quello potesse collaborare con la giustizia e informa Colace che Giuseppe Comito “si sta facendo la galera a testa alta”.
Intanto Colace gli chiede altri favori: gli serviva un telefonino intestato a qualcuno perché doveva chiamare una persona a Milano. Guastalegname esegue e in seguito scopre che questa persona è Totò Pornestì, detto Yoyò.
Salgono a Milano, Colace e Guastalegname e in un bar vicino Sa Siro incontrano Pronesti. Guastalegname non sente cosa si dicono gli altri due. Lo scoprirà, racconta, più tardi. C’era una società di Novara che aveva avuto l’appalto per trasportare il materiale per i lavori al Nuovo Pignone (nella zona industriale di Vibo Marina) che aveva dato lavoro alla ditta dei fratelli Nicola e Gianfranco Lo Bianco. Un contratto che stava per scadere. L’interesse di Colace e Pronesti – dice Guastalegname – era quello di il lavoro dei Lo Bianco passasse alla ditta Ruggero di Vibo Marina. Un cambio di ditta che interessava anche “zio Luigi”, ovvero Luigi Mancuso.

L’interesse di Colace per le armi dei sinti

Nel corso dei suoi viaggi al Nord, Nazzareno Colace, racconta Antonio Guastalegname, si era molto interessato dell’attività che il collaboratore aveva con i sinti. Ancora di più il suo appetito si era accresciuto quando aveva scoperto che i sinti potevano procurare anche armi. “Queste armi servono a noi”, dice Colace a Guastalegname. Il “noi” era riferito alla sua consorteria criminale. “Perché, vi spiego subito dottore – dice il collaboratore – la faida che c’è stata tra i Piscopisani e gli Stefanacoti non è avvenuta per l’omicidio di Fiorillo, quella è stata la goccia. Però la faida è stata più negli interessi di Luni Mancuso Scarpuni. E infatti gli Stefanacoti erano appoggiati da Mancuso”. Dunque le armi servivano per questa faida di Stefanaconi che era già in atto.
Alla fine i sinti decidono di fornire di armi i calabresi e l’occasione propizia si presenta nel 2014. I sinti fanno un grosso furto di armi nella provincia di Alessandria: mitra di precisione, k-47, fucili, kalashnikov. Tutte armi con numeri di matricola intatti. “Io ho presto queste armi – dice Guastalegname – ho chiamato un operaio che lavorava con me d’estate e siamo andati con un furgone”. I sinti gli danno il borsone con le armi e dicono che è per Nazzareno. Quel giorno Guastalegname paga un acconto di 2.500 euro per le armi. Poi porta il borsone nella casa disabitata della zia di sua nuora. Guastalegname comunica a Colace di essere in possesso delle armi e quello manda su il figlio Ivan e un’altra persona (la cui identità è celata dal segreto istruttorio) per visionare la merce. Il pentito racconta di avere fatto due viaggi con la macchina per portare armi in Calabria: uno a Pasqua 2014 – 7/8 pezzi tra pistole e fucili – e in seguito il carico grosso da 13/14 pezzi.

L’arrivo di Giuseppe Antonio Piccolo e i guai

Giuseppe Antonio Piccolo arriva ad Asti perché aveva avuto dei problemi con i rosarnesi. Un conflitto a fuoco che lo costringe a lasciare la Calabria. Nazzareno Colace lo descrive come “una persona pericolosa, un soldato di zio Luigi”. Infatti la prima cosa che fa Colace è parlare con Pronesti per portargli un’imbasciata di Luigi Mancuso.
Poi cominciano i guai: il 19 dicembre 2014 Antonio Guastalegname, il figlio Domenico, Giuseppe Antonio Piccolo e altri due del posto, Fabio Fernicola e Jacopo Chiesi partecipano a una rapina nella quale viene ucciso un tabaccaio di Asti, Manuel Bacco. L’omicidio non era previsto e scatta subito il panico. Guastalegname porta Piccolo da Pronesti che gli si scaglia contro: “Sei appena arrivato e già hai fatto danno”. Poi Piccolo e Pornestì comandano a Guastalegname di uccidere le altre persone coinvolte nella rapina perché non parlassero. Anche zio Luigi – dice il collaboratore – aveva dato il consenso all’eliminazione. Guastalegname dice di no, che nessuno avrebbe parlato. Ma non finì così e vennero arrestati tutti nel 2018. Il sette giugno scorso sono stati tutti condannati definitivamente a 30 anni dalla Cassazione. A entrare nella tabaccheria erano stati Chiesi e Piccolo. Agli inizi del processo, nel corso dell’udienza preliminare, Guastalegname e Piccolo si incontrano nelle cellette del Tribunale. Guastalegname nota la freddezza tra Piccolo e suo figlio Domenico. Piccolo gli dice che è colpa delle dichiarazioni che aveva fatto il figlio: “Ma tu, compare, i vidisti i dichiarazioni chi fici figliuta?”.
Guastalegname risponde che il figlio ha fatto le dichiarazioni giuste “perché ci sono due persone innocenti e preciso, procuratore, che hanno preso 30 anni, confermati pure in Cassazione”.
Piccolo gli porta l’imbasciata di zio Luigi: incolpare Chiesi per salvare Piccolo. La consorteria dava la colpa a Guastalegname di non avere eliminato i testimoni. Ma quello risponde a Piccolo: “Ti devi prendere tu le tue responsabilità che io non gli faccio fare la galera a persone innocenti”.
Poi Piccolo aggiunge: “Poi per te non ti preoccupare che quando arriviamo o in Cassazione o giù, te lo sistema zio Luigi che c’è l’avvocato Pittelli”. Un altro avvocato che interveniva sui processi, racconta il collaboratore, è Stilo. Glielo raccontarono persone come lo stesso Piccolo il quale gli disse che aveva saputo da Stilo di indagini su di lui prima che gli arrivasse la notifica. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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