LAMEZIA TERME Sullo sfondo il processo “Rinascita-Scott” che ha interessato sei locali di ‘ndrangheta ovvero quelli di Limbadi, San Gregorio d’Ippona, Vibo Valentia, Zungri, Sant’Onofrio, Filandari e Ionadi, articolate in numerose cosche e strutturate per lo più su base familiare, l’inchiesta Imponimento, condotta anche questa dalla Dda di Catanzaro, ha acceso i riflettori su Filadelfia per far luce su un quadro variegato e che dimostra come la ‘ndrangheta, nel corso degli anni, sia stata in grado di adattarsi all’ambiente di riferimento, dalla “terra dei contadini” ai “palazzi di potere”.
Tutta la storia delle organizzazioni del Vibonese riguarda per larghi tratti i rapporti intrecciati con la cosca Mancuso di Limbadi, ma gli elementi emersi nel corso dell’inchiesta Imponimento e del processo, dimostrano come lo stesso discorso valga anche per gli Anello, protagonisti e ideatori di una frangia composta anche dagli esponenti di Sant’Onofrio, dai Piscopisani, quelli legati a Mantella, sotto l’egida di Damiano Vallelunga.
A scriverlo nero su bianco sono i giudici nelle oltre 2mila pagine delle motivazioni della sentenza del processo “Imponimento” celebrato con rito abbreviato, e che ha visto la condanna in totale di 65 persone. Per i giudici, che hanno confermato di fatto il castello accusatorio della Dda di Catanzaro, gli Anello avrebbero prima cercato di scardinare lo strapotere dei Mancuso e del boss Pantaleone “Scarpuni”, poi ne sono diventati parte integrante ed importante all’interno di un piano di spartizioni del potere già ideato dal boss Luigi Mancuso.
Un quadro che i giudici definiscono «armonico e coerente» con particolare riferimento a Pizzo, ai rapporti strettissimi con i Bonavota, e l’interlocuzione proficua con il boss Luigi Mancuso. Ma i giudici, nelle loro motivazioni, vanno oltre: il locale di Filadelfia, infatti, si «caratterizza per una storia parzialmente diversa da quelle delle altre articolazioni di ‘ndrangheta operanti nel Vibonese» perché gli Anello «vantano antichi legami con i Bellocco di Rosarno» e, considerata la vicinanza, «volgono le loro attenzioni anche al territorio Lametino». Una cosca comunque potente e, grazie alla fama, capace di «incutere timore per la sua stessa esistenza» generando così una situazione di «assoggettamento e un atteggiamento di omertà, dettato dalla paura di eventuali ritorsioni» non solo di carattere fisico ma «in azioni di pressione e ricatti», grazie anche alla figura del boss Rocco Anello, capace di «esplicare una forza di intimidazione pronunciando soltanto il proprio nome». Un sodalizio, quello degli Anello-Fruci, tra i più potenti e pericolosi dell’area vibonese che, storicamente, ha sempre intrattenuto rapporti strettissimi con le cosche di ‘ndrangheta del Lametino e delle Serre vibonesi.
Una cosca, quella degli Anello-Fruci, a tutto tondo, attiva «in settori disparati, ovunque potesse esercitare la propria influenza parassita e predatoria». Nel corso del procedimento è stata dimostrata, secondo i giudici, la gerarchia interna, il controllo del territorio, le attività estorsive, la scientifica infiltrazione in interi settori dell’economia (alberghiero, energia eolica e taglio boschivo). E poi la disponibilità di armi, il traffico di droga, i rapporti con la politica locale e nazionale, ma anche con esponenti delle forze dell’ordine e in altri paesi al di fuori dell’Italia come Svizzera, Germania e Lichtenstein.
Sono state poi le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui Michele Iannello e Giuseppe Giampà, a delineare larghi tratti della storia dell’ascesa degli Anello, a partire dagli anni ’90 quando si era «staccata dai Mancuso, entrando in contrasto con i suoi vertici, sposando la linea garantita da Damiano Vallelunga che, anche lui in contrasto, faceva capo direttamente a Umberto Bellocco. Tesi confermata anche da un soggetto intraneo alla cosca Anello come il pentito Francesco Michienzi. (redazione@corrierecal.it)
x
x