VIBO VALENTIA Un patto stretto tra diverse fazioni criminali, influenti nel territorio Vibonese, con un obiettivo ben preciso e di tipico stampo ‘ndranghetistico: imporre le imprese per l’esecuzione dei lavori, i prezzi e le condizioni di lavoro. È quello che è accaduto anche a Pizzo, sulla costa tirrenica calabrese. Uno dei tanti episodi ricostruiti dagli inquirenti e che in aula, nel corso del processo “Imponimento” celebrato con rito abbreviato, ha trovato poi riscontro fino alla condanna di 65 persone.
Al centro della vicenda ci sono gli atti estorsivi compiuti ai danni dell’amministratore di fatto della “Genco Carmela & Figli srl”, l’avvocato e imprenditore Vincenzo Renda, condannato peraltro a 4 anni e 10 mesi. Ingerenze per cercare di condizionare l’assegnazione e l’esecuzione dei lavori di costruzione del villaggio-residence in località Galìa nel comune di Pizzo, nel Vibonese. L’imprenditore – così come è riportato nelle oltre 2mila pagine delle motivazioni della sentenza firmate dal giudice Rinaldi – è stato sottoposto ad un continuo «stillicidio di ‘mbasciate estorsive incrociate, ed è stato poi costretto ad accettare la volontà di diverse cosche» pur di «non avere problemi sul cantiere» e poter svolgere «i lavori in tranquillità», garantendo però ingiusti profitti agli esponenti dei clan, a danno della propria azienda.
Tutta l’indagine ruota attorno alla figura del boss indiscusso del clan, Rocco Anello, un nome talmente noto e di una tale forza intimidatrice da rendere perfino superfluo l’avvertimento mafioso o il ricorso a minacce o violenze, con la conseguente (ed allarmante) arrendevolezza degli imprenditori locali. Così come è accaduto alla “Genco Carmela & Figli srl” alla quale è stato imposto il sub-ingresso di altre tre imprese, quella del figlio del boss Anello, quella di Daniele Prestanicola – sponsorizzata ovviamente da Rocco Anello – e quella di Ruccella, su imposizione di Giuseppe Barbieri, considerato elemento di spicco del clan Bonavota, in affari proprio con gli Anello, per la fornitura di cemento e per lo sbancamento del terreno. E poi l’azienda di Francesco Serratore per la fornitura, invece, delle grondaie e dei pluviali.
Andando con ordine, dagli atti degli inquirenti era già emerso come Renda avesse concluso con l’amministratore giudiziario dell’impresa di Restuccia un contratto di appalto per la realizzazione del residence in località Galìa. Ma il boss Rocco Anello, che aveva già messo gli occhi sull’affare, resta sorpreso dalla scelta di affidare i lavori ad un’azienda sottoposta comunque al controllo del Tribunale, ipotizzando anche di incendiare i mezzi e lo stabilimento. Ma è stato poi lo stesso Renda a spiegare al boss Anello che ad imporgli la scelta era stato il Tribunale. Rocco Anello però non vuole affatto rinunciare all’affare e decide di mettersi in contatto con i Mancuso di Limbadi.
In una conversazione intercettata il 19 giugno 2017, è Rocco Anello a riferire, parlando con Daniele Prestanicola e Filippo Ruggiero, di un dialogo avuto nel corso di un pranzo della settimana precedente nel corso del quale era riuscito a trovare un accordo con gli esponenti del clan Mancuso, Prenesti e Gallone. «Due giorni da ho parlato con Pasquale (Gallone ndr) e con Totò (Antonio Prenesti) (…) ditegli che io ho parlato fino all’altro giorno con loro e loro gli hanno detto sia don Angelo sia Luigi che il movimento terra lo dobbiamo fare noi!». «Gli potete dire così, che ve l’ho raccontato io che “gli hanno detto che, quelli là di Limbadi, che deve andare a farlo lui”». I successivi sviluppi investigativi, e riportati nelle motivazioni, dimostrano che, una volta raggiunto l’accordo con i Mancuso, Rocco Anello aveva imposto a Renda che all’interno del suo cantiere lavorassero le imprese sponsorizzate da lui. Sarà poi lo stesso Renda a suggerire di subappaltare i lavori alla società di Restuccia, alla quale «Rocco Anello e Prestanicola avrebbero dovuto inviare un preventivo e poi concludere il contratto».
Ma i lavori per la realizzazione del resort in località Galìa facevano gola a molti altri clan. Ad intromettersi, infatti, è stata l’azienda di Ruccella che aveva presentato un preventivo per la fornitura del cemento. Un’iniziativa che Rocco Anello aveva addebitato a Giuseppe “il prete” Barbieri, esponente dei Bonavota. Seguiranno più di una riunione tra Rocco Anello e “il prete”, rivolgendosi addirittura ai Mancuso per «determinare chi avrebbe dovuto effettuare la fornitura». L’accordo si conclude con la decisione di affidare il lavoro all’impresa di Angelo Restuccia il quale avrebbe poi subappaltato in parti uguali i singoli lavori. «(…) quello vuole portare cemento, quello vuole portare questo, allora facciamo tutti uguali, gli togliamo tutto a tutti e diamo tutto ad uno! (…) vi fanno a tutti pari e il lavoro glielo dà a Restuccia». Ma Rocco Anello sottolinea: «Gli ho detto “no, io non sono paro, non sono come gli altri!”». Il summit avuto con i Mancuso è confermato da ulteriori intercettazioni. «Se non parlavo io per voi – spiega a Prestanicola e ad un tale Giuseppe – il cemento lo portava tutto Mesima, glielo avevano imposto quelli di Nicotera. Pure a me avevano tolto dal lavoro, ce lo siamo diviso perché c’eravamo noi! La ‘mbasciata a Luigi (Mancuso) gliel’ho mandata io». E così, con il placet dei Mancuso, il cantiere che era stato affidato a Restuccia è stato poi ripartito tra le aziende riconducibili a Rocco Anello e a quella di Ruccella sponsorizzata da Barbieri. «Fate un pezzo ciascuno – dirà poi Renda – cosa volete che vi dico, io non lo so. Non devo avere problemi io, punto». L’imposizione di Rocco Anello si spinge oltre, fino ad esigere che anche la fornitura di pluviali e grondaie fosse affidata all’impresa di Francesco Serratore. (redazione@corrierecal.it)
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