Sono due in particolare i refrain sui quali insistono i commenti dei dirigenti del Pd dopo la rottura fra Calenda e Letta.
Il primo è che bisogna evitare di gridare al pericolo fascista rappresentato da Meloni, il secondo riguarda l’abolizione del termine Agenda (leggi: “Agenda Draghi”).
Ce ne sarebbe un terzo, per la verità, ma andiamo con ordine.
A iniziare da Bonaccini che dall’Emilia Romagna in molti lo vedrebbero bene in vece di Letta alla guida del Pd: allarme rosso per il Mezzogiorno viste le sue simpatie per il regionalismo asimmetrico-incita a non agire di rimessa ma ad avanzare una proposta politica in positivo, una idea di paese con dentro i principali asset: giustizia sociale, lavoro, energia, ambiente. Non deve essere la paura nei confronti dell’onda nera-insiste Bonaccini-il messaggio che dobbiamo essere in grado di veicolare ma la nostra visione di partito in sintonia con i tempi e con la domanda del nostro elettorato, anche di quello da catturare.
Cuperlo di Agende non vuol sentir parlare: non è una questione terminologica bensì di richiamo al recente governo di cui il partito di Letta è stato il maggiore e, sembrava, il più convinto assertore: ma ora non c’è più, c’eravamo dentro un po’ tutto mentre oggi parliamo di programma, un programma nostro – traspare dalle parole di Cuperlo -, più di sinistra.
Nel Pd, è noto, convivino più di una sensibilità: Draghi è il passato, è un tecnico, ed è ora di tornare alla politica.
E qui calza a pennello il terzo refrain: le alleanze, che poi ci conduce anche verso un ragionamento sulla cifra identitaria del Pd. Da questo punto di vista se Draghi è il passato 5Stelle e Conte sono bell’e sepolti, tant’è che il pendolo ha vertiginosamente oscillato, in brevissimo tempo, prima fra un patto con Calenda-moderato, centrista, espressione di “ambienti abbienti” ha chiosato qualcuno; e subito dopo con Fratoianni e Bonelli, passando per uno spericolato “tutti insieme appassionatamente”.
In vista delle elezioni, per di più impreviste, ci può stare quest’oscillare che a molti sconcerta: la legge elettorale vigente in buona misura impone accordi e patti quali che siano, poi si vedrà. Ci può stare di meno, invece, non avere sciolto nodi irrisolti che persistono fin dalla scelta della vocazione maggioritaria e dalla nascita stessa del Pd, quindi: in particolare il nodo, come acutamente ricordava Claudia Mancina settimane fa, che riguarda fare i conti con la storia.
A quale sinistra fa riferimento il Pd nell’era della globalizzazione, della società liquida, dell’accrescersi di ricchezze vertiginose e parimenti di povertà spaventose, di un welfare che non ce la fa, lavori nuovi, lavori nuovissimi, carenza di lavoro, di squilibri territoriali che vedono accresciuta sempre più l’apertura di una forbice implacabile, dell’insorgere impetuoso di diritti civili, e l’antipolitica e il populismo sembrano dominare?
Può esserci, lo sappiamo, una sinistra di rappresentanza e una sinistra di responsabilità: una che, così sembrava, aveva intrapreso se pure in maniera contorta la via, quanto mai e sempre più, impervia del cimentarsi con la sfida del governo, l’altra una sinistra di testimonianza non si sa quanto utile e auspicabile.
Il rischio che si intravede, oggi, è che il Pd possa rinculare verso posizioni di un arretramento che lo confinano in postazioni retrò con prospettive di certo non rassicuranti per la democrazia e il progresso.
Ci sono le candidature da definire e un programma da stilare: che siano di profilo alto le prime, che sia credibile e non arroccato l’altro: il resto, a poco più di un mese dal voto, non si può dire.
*docente universitario, già senatore
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