CATANZARO «Candidarmi per fare cosa? Sono felice di essere il procuratore della Repubblica di Catanzaro, mi piace questo lavoro e mi emoziona ancora. Riesco a fare delle cose importanti che rendono più vivibile la vita ai calabresi anche a parte dell’Italia». Un (breve) passaggio elettorale per Nicola Gratteri, ospite nei giorni scorsi a Vieste del festival “Il libro possibile”. L’idea di una candidatura non sfiora il magistrato. Che pensa, piuttosto, alla realizzazione della prima idea “inaugurata” appena si insediò a Catanzaro: «Il prossimo mese – dice – inaugureremo la nuova Procura che è nata da una mia idea, ho fatto anche il capomastro. È un convento il bellissimo del Quattrocento riportato alla bellezza dell’epoca. Tra pochi giorni diventerà la nuova Procura Repubblica di Catanzaro con un risparmio di 1.700.000 euro l’anno di fitto».
Tanto per restare sulla politica, Gratteri spiega ai cronisti che «può dare più o meno ossigeno alle mafie da due punti di vista: innanzitutto perché le mafie votano e fanno votare e cercano di non stare mai all’opposizione. Secondariamente, nel momento in cui il potere politico non rispetta la Costituzione e non crea delle norme proporzionate al contrasto della realtà criminale è ovvio che le mafie hanno ossigeno e diventano più forti, arroganti, e la gente indietreggia». Uno dei rischi è, al solito, quello legato ai fondi del Pnrr, la cui architettura «amplifica il problema che c’è oggi sugli appalti. Più si parcellizza il potere, più i soldi vanno in periferia, più sono esposti agli appetiti delle mafie». Un processo che rischia di essere amplificato, da “complici e colpevoli”, per citare uno dei libri firmati da Gratteri assieme al professore Antonio Nicaso. È un volume, spiega il procuratore, «che parla della la colonizzazione delle mafie al nord; i complici sono i colletti bianchi, la zona grigia, il mondo delle professioni che in cambio di soldi sono al servizio delle mafie. I colpevoli sono i cittadini che, sapendolo, fanno la spesa nei supermercati delle mafie e i politici che non creano un sistema giudiziario proporzionato a questa realtà criminale».
Il quadro è complicato. Il dibattito sulla lotta alle mafie è stato serrato nell’ultimo anno. E gli interventi legislativi del governo criticati da ampi settori della magistratura. Uno scenario forse inatteso, visto che ricorre il trentennale delle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino. O forse no, dato che la verità su quelle storie è ancora lontana. Per scoprire, dice Gratteri, «si deve ritrovare l’agenda rossa di Borsellin. Lì erano annotate tutte le cose importanti vissute negli ultimi due mesi della sua vita. La vedova racconta che tornava a casa ogni sera sempre più arrabbiato. Se andava a Roma, andava da gente che aveva a che fare con le istituzioni e tornava arrabbiato vuol dire che aveva capito che era stato abbandonato». Eppure le morti dei due magistrati siciliani «che capivano le cose venti anni prima degli altri e sono stati combattuti in tutti i modi», hanno fatto creato i presupposti per una reazione che continua ancora oggi. «Falcone era un perdente nato, uno sfigato, gli hanno preferito chiunque nei ruoli per i quali si era candidato nella sua carriera. Dopo che è stato ucciso è successo un miracolo, si è creato in Italia un movimento inaspettato che ancora dura. C’è gente che non era nata e si nutre ancora della grandezza di questi uomini. Per questo Falcone e Borsellino non sono morti invano».
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