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le relazioni pericolose

La “Fornace” della ‘ndrangheta e l’imprenditore del clan che custodì i reperti del museo archeologico

La storia del terreno di Archi al centro degli interessi delle cosche. Da sede della “scuderia Condello” per le corse clandestine all’idea di un villaggio da «100mila metri quadri» sponsorizzato da…

Pubblicato il: 12/08/2022 – 6:40
di Pablo Petrasso
La “Fornace” della ‘ndrangheta e l’imprenditore del clan che custodì i reperti del museo archeologico

REGGIO CALABRIA Attorno alla “Fornace”, a Reggio Calabria, si concentrano, nel 2007, gli interessi di diverse famiglie di ‘ndrangheta. Il terreno che sarà acquistato da Carmelo Ficara, imprenditore edile il cui tesoro da 160 milioni di euro è stato confiscato nei giorni scorsi, ospitava una fabbrica di laterizi. Quel fazzoletto di terra è crocevia, secondo i giudici, di «plurimi diritti e pretese riconducibili a importanti famiglie mafiose». Lo attesterebbe il contratto di compravendita che reca in calce i nomi degli eredi. È il procedimento “Eracle”, secondo quanto riporta il decreto di confisca, ad attestare l’utilizzo di quel terreno da parte di alcune famiglie in odore di ‘ndrangheta. In quell’inchiesta, che porto all’arresto di Domenico Condello, figlio del boss Pasquale il “Supremo”, si accertò «come, sul fondo di proprietà di Ficara, egli gestisse un allevamento di cavalli da destinare alle corse clandestine». Nell’ambiente criminale era nota come la “Scuderia Condello”. E, secondo i magistrati reggini, anche l’imprenditore ne era a conoscenza, come emergerebbe «con estrema chiarezza da un interrogatorio» dell’11 aprile 2018, «nel corso del quale Ficara parlava del terreno adibito a scuderia che sarebbe spettato alla famiglia Condello, con la quale l’imprenditore aveva stipulato un contratto di locazione per evitare le conseguenze di un eventuale trasferimento a titolo gratuito». 

L’unico imprenditore interessato alla Fornace

Al di là dell’interesse del clan Condello per le corse clandestine, l’inchiesta rivela – attraverso le parole del precedente proprietario dell’area – «che su quel terreno insistevano da lungo tempo le pretese vessatorie delle famiglie mafiose Tegano, Condello, De Stefano». Questo interesse si trasformava in veri e proprio “espropri” di porzioni di terreno. Per questo motivo, il vecchio proprietario «aveva maturato l’idea di vendere»; tuttavia, «tutti gli imprenditori contattati, consci del fatto che quella zona fosse gestita dalle famiglie mafiose, non si dimostravano interessati all’acquisto, tranne Ficara». Questo perché sarebbe «ragionevolmente consapevole che le interferenze delle cosche locali non avrebbero impedito lo svolgimento della sua attività edile in virtù dell’accordo intercorso con la cosca De Stefano» del quale ha parlato in maniera diffusa il collaboratore di giustizia Enrico De Rosa. L’edificazione sul terreno dell’ex Fornace finisce in un’intercettazione tra il figlio di Ficara e un uomo considerato vicino all’imprenditore. Nel corso di quel colloquio, il figlio di Ficara «illustrava – si legge ancota – l’imponente speculazione immobiliare progettata dalla sua famiglia («Voglio fare su centomila metri, quasi centomila metri, voglio fare un intervento unico, un villaggio»), e il secondo ne individuava immediatamente il luogo di realizzazione nella zona di Archi («lo devi fare ad Archi, no?»), denotando la domanda la consapevolezza della posizione “dominante” rivestita da Ficara in quel territorio dominio dei De Stefano». Un “dominio” che riesce addirittura a gestire contrasti e appetiti di più famiglie mafiose sullo stesso fazzoletto di terra. 

I reperti archeologici custoditi nel magazzino di Ficara

L’identificazione di Ficara come imprenditore di riferimento del clan De Stefano emergerebbe anche dalle carte dell’inchiesta “Il Principe”. L’inchiesta fa luce sulle intimidazioni sofferte da alcuni dipendenti della Cobar, impresa che si era aggiudicata i lavori per la ristrutturazione del Museo archeologico di Reggio Calabria. Minacce sfociate addirittura nell’inseguimento di un autocarro dell’impresa da parte di malviventi armati di pistole, «cui avevano fatto seguito svariate richieste di somme di denaro da destinare al sostegno economico dei familiari detenuti».
Nel prosieguo dei lavori – sintetizzano i giudici – «alla Cobar spa era stata imposta l’assunzione di alcuni dipendenti segnalati dagli estorsori, il pagamento – reiterato e periodico, in almeno quattro occasioni – di ingenti somme di denaro, l’utilizzo di fornitori di servizi», anch’essi selezionati dagli estorsori. Dalle dichiarazioni di Enrico De Rosa, inoltre, «risulta che anche la scelta del locale deposito in cui custodire alcuni reperti archeologici era stata decisa dalla cosca De Stefano che aveva appunto selezionato un immobile di Carmelo Ficara, imposto alla Cobar spa che nulla aveva potuto obiettare». Lo stesso amministratore unico della società «ha offerto agli investigatori le proprie conoscenze in ordine alla vicenda, affermando che l’individuazione del deposito di Ficara non era stata l’esito di una libera scelta della società ma che si trattava di una imposizione fatta con termini perentori alla quale non aveva potuto sottrarsi». In quell’occasione, il Tribunale della Libertà «ha ritenuto che dagli atti di indagine non emergessero elementi idonei a delineare la responsabilità di Ficara» come concorrente dell’estorsione, tuttavia «ha comunque ritenuto che il suo ruolo di destinatario del vantaggio derivato dalla condotta estorsiva costituisse conferma di quell’accordo sinallagmatico con la cosca su cui ha riferito il collaboratore De Rosa e che ha consentito al Ficara di usufruire dell’ausilio del sodalizio criminale per la sua ascesa imprenditoriale nei quartieri dalla stessa cosca controllati». (p.petrasso@corrierecal.it)

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