CATANZARO Il Tribunale del Riesame di Catanzaro – Filippo Aragona presidente, Sara Merlini, Roberta Cafiero a latere – ha rigettato il ricorso presentato dagli imprenditori del settore commerciale Francesco Perri, 54 anni, e il fratello Pasqualino Perri, 61 anni. Entrambi sono accusati di sfruttamento del lavoro e lo scorso 13 luglio il gip del Tribunale di Lamezia Terme ha emesso, su richiesta della Procura, un decreto di sequestro di somme di denaro e beni per 665mila euro nei confronti degli indagati e delle società delle quali i due indagati sono amministratori di diritto e di fatto (tre società di capitali, una delle quali ora fallita).
I due imprenditori hanno fatto ricorso davanti al Tribunale del Riesame contro il decreto di sequestro.
Secondo i giudici i 78 dipendenti nei confronti dei quali – secondo gli accertamenti del Nucleo Operativo-Nucleo Mobile del Gruppo della Guardia di finanza di Lamezia Terme – è stato perpetrato il reato di sfruttamento del lavoro «hanno descritto in modo lineare le condizioni lavorative a cui erano costretti per poter percepire una retribuzione che consentisse loro di tentare di soddisfare quantomeno i bisogni primari sacrificando tuttavia la loro dignità e tentando così di evitare il licenziamento oppure il trasferimento in sedi disagiate (le dichiarazioni delle persone offese sono confermate dai contenuti delle intercettazioni e dai servizi di osservazione e controllo attuati dalla polizia giudiziaria oltre che dalle prove documentali)». I giudici ritengono che la paga ottenuta fosse «al di sotto dei minimi sindacali», corrisposta «a fronte di sacrifici lavorativi enormi, contraddistinti da orari e prestazioni di lavoro inesigibili, mancato riconoscimento di elementari diritti quali il recupero delle ore lavorate in eccedenza oppure la fruizione di ferie secondo quanto stabilito dai contratti collettivi oppure la fruizione dei giorni di riposo settimanali o durante i giorni festivi».
I giudici pongono l’accento sui cedolini che sarebbero stati falsificati dagli indagati «specificando il quantum debeatur in modo che questo corrispondesse alle prestazioni lavorative, le quali, tuttavia, erano indicate nel cedolino in misura inferiore rispetto a quelle effettivamente svolte. Infine, le persone offese erano costrette a rinunciare anche al versamento dei contributi previdenziali obbligatori».
I giudici ritengono che non vi sia «nessun dubbio circa la riconducibilità di tali fatti» al delitto di sfruttamento del lavoro che viene contestato agli indagati «infatti sussiste il requisito del reclutamento della manodopera (nelle aziende amministrate sia da Francesco Perri che da Pasqualino Perri), sussistono le condizioni di sfruttamento dei lavoratori, sussiste infine l’approfittamento dello stato di bisogno». Il collegio respinge le tesi difensive riguardo al reale stato di bisogno delle persone offese poiché «molte persone offese erano soggetti disoccupati i quali avevano necessità di lavorare per poter vivere, tant’è che alcune di esse hanno dichiarato di non avere neanche osservato attentamente i cedolini per verificare le condizioni economiche del rapporto di lavoro, proprio perché essi avevano l’assoluta necessità di guadagnare qualcosa a costo di qualsiasi sacrificio».
«Sussiste – concludono i giudici del Riesame – certamente il periculum in mora, in quanto la misura adottata ha lo scopo di recuperare il profitto del reato (che nel caso specifico consiste nella parte di salari indebitamente non corrisposta ai dipendenti, il cui valore è stato quantificato da una fonte altamente qualificata, ossia da un team di ispettori dell’Inps), pertanto la misura reale applicata è legittima ed è proporzionata rispetto allo scopo voluto dal legislatore ossia la confisca del profitto (o del valore equivalente) dei delitti commessi». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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