REGGIO CALABRIA La “stampa rosa” ne parla come di un «famoso imprenditore calabrese che viene da una importante famiglia, si divide tra la Calabria, Milano e Ibiza ed è tra i soci proprietari del Ristorante Oro di Milano». Sintesi contenuta in una informativa della Squadra mobile di Reggio Calabria che, nel 2020, tratteggiava così la figura di Giorgio “Malefix” De Stefano: love story a favore di paparazzi con una delle protagoniste del Grande Fratello Vip, affari e “bella vita” a Milano. Forse troppo in vista. Almeno per i gusti di Alfonso Molinetti, classe 1957, storico sodale della famiglia De Stefano che, in una lunga intercettazione, si confronta proprio con “Malefix” per analizzare – e provare a dirimere – i contrasti nati a Reggio Calabria tra due famiglie che sono sempre state vicine sullo scacchiere della ‘ndrangheta.
In quel dialogo, riportato nella memoria depositata dalla Dda dello Stretto nell’ambito del processo Epicentro (nel quale Giorgio De Stefano è stato condannato a 12 anni e 8 mesi), c’è la rievocazione di un pezzo di storia dei clan. Ma anche il confronto tra due generazioni. La nuova, finita sotto i riflettori e sulle colonne dei rotocalchi, e la vecchia, più guardinga. Molinetti, infatti, ammonisce «il giovane delfino dei De Stefano alla massima cautela, sollecitandolo – tra le righe – a una minore ostentazione dei propri beni e ad uno stile di vita meno appariscente». «E com’è – dice –… a Milano mi hanno detto… che stai bene… per dove… sei andato? te ne vai in vacanza? Eh… devi stare attento… Giorgio… devi stare solo attento… la visibilità… meno ce n’è… meglio è…».
Vecchi precetti che tornano utili in quel momento particolare, poiché all’esperto Molinetti non sfuggiva «che il risalto mediatico delle frequentazioni e delle relazioni coltivate da De Stefano nel capoluogo lombardo mal si conciliava con l’approccio ben più riservato che di regola si addice agli esponenti apicali della ‘ndrangheta».
L’incontro che si svolge a Giugliano vede “Malefix” rassicurare Molinetti, che in Campania presta servizio da ergastolano semilibero nella sede di un’associazione. Lo tranquillizza «sulla propria capacità di attivare – alla bisogna – gli strumenti necessari a distogliere l’attenzione degli inquirenti ed eludere le temute investigazioni».
I pm antimafia spiegano che Giorgio De Stefano «nei momenti di maggiore “fibrillazione” investigativa e quindi di più elevato rischio giudiziario, preferiva dimorare all’estero, pur non recidendo totalmente i suoi legami con gli interessi gestiti in Lombardia». In particolare, riferiscono i pm della Dda di Reggio Calabria, «dopo l’arresto del fratello Dimitri De Stefano e dello zio Orazio De Stefano, si era a lungo trasferito in Spagna, essendo evidentemente consapevole di essere – egli stesso – passibile di provvedimenti analoghi a quelli che avevano colpito i congiunti».
«Son stato quattro anni fuori dall’Italia – dice – quando è stato il fatto pure di Dimitri… hanno arrestato a Dimitri e gli hanno fatto l’operazione… a mio zio… me ne sono andato io (…) stavo una settimana e poi ripartivo di nuovo… e stavo in Spagna, no? pure… in estate stavo a Ibiza».
Anche i viaggi a Reggio Calabria erano considerati a rischio da Giorgio De Stefano, che «utilizzava stringenti escamotage per non lasciare traccia dei suoi spostamenti». Assieme a uno dei suoi sodali, «aveva l’abitudine di partire in treno da Milano e di fare sosta a Roma o a Napoli, per poi ripartire in automobile, avendo cura di non portare con sé gli apparecchi telefonici».
Questo, ovviamente, per «eludere il monitoraggio degli inquirenti e non far emergere la loro presenza in territorio calabro». «Bisogna fare ogni volta un manicomio… dobbiamo arrivare a Roma o a Napoli… lasci i telefoni… prendi la macchina…(…) Perché con me non è che sono… stanno cercando in tutti i modi… di…», spiega “Malefix”. «Eh… devi stare attento… Giorgio…», risponde Molinetti.
De Stefano, peraltro, avrebbe «appreso, da un’amica ben introdotta in ambienti giudiziari, che in più circostanze il suo nome era comparso in atti di indagine, senza che – tuttavia – la magistratura riuscisse a provare la sua colpevolezza. Gli inquirenti, infatti, non erano giunti all’individuazione dei necessari riscontri per contestare a suo carico accuse sostenibili». E «sottolineava di essere uscito indenne anche dopo l’arresto del fratello latitante Giuseppe. In quella circostanza non erano stati incriminati i favoreggiatori, a differenza di quanto accaduto in occasione dell’arresto degli altri latitanti inseriti nella lista – redatta dal Ministero dell’interno – dei trenta più pericolosi ricercati».
Molinetti, in quella fase, ha bisogno di tutto l’aiuto che lo storico clan reggino può dargli. L’intercettazione, infatti, riesce a captare «la consegna delle banconote da parte di Giorgio De Stefano in favore dell’anziano affiliato».
Molinetti «dapprima si schermiva (rappresentando di non essere a corto di liquidità e di non versare quindi in stato di bisogno), ma di fronte all’obiezione dell’interlocutore – che faceva leva sulle regole solidaristiche di ‘ndrangheta – non solo accettava il gradito “pensiero”, ma si diceva lusingato perché quella consegna seguiva le altre, dello stesso tipo, che ripetutamente Carmine De Stefano gli aveva fatto pervenire per il tramite del figlio».
«Se un domani sarò libero starò sempre vicino a Carmine e a Peppe», è la chiosa di Molinetti: un giuramento di «eterna fedeltà ai fratelli De Stefano».
“Malefix” apprezza, ma allo stesso tempo non ritiene «opportuna la permanenza a Reggio Calabria degli esponenti apicali della cosca».Ne auspica, piuttosto, l’«allontanamento dal territorio calabrese, ferma la possibilità di gestire a distanza gli interessi del sodalizio». E si augura, «in particolare, che il fratello Carmine De Stefano, in caso di autorizzazione da parte del Tribunale Misure di Prevenzione», si trasferisca «in altra regione». Allo stesso modo l’altro fratello Giuseppe De Stefano, «non appena avesse ottenuto l’agognata scarcerazione», avrebbe fatto meglio a «stare alla larga dalla città di origine: sapeva infatti che, in caso contrario, i controlli degli inquirenti sarebbero stati così intensi e penetranti da ricondurlo in carcere nel volgere di pochi mesi».
È un altro confronto tra vecchia e nuova generazione. Molinetti ha idee differenti. «Legato ai vecchi retaggi della ‘ndrangheta – scrivono i pm –, considerava indispensabile il mantenimento di una figura prestigiosa e carismatica nel cuore del territorio reggino, allo scopo di amministrare direttamente e in loco gli affari della cosca, facendo valere il potere intimidatorio e l’autorevolezza evocati dal nome della storica ‘ndrina». De Stefano, tuttavia, «faceva comunque presente che allontanarsi da Reggio non sarebbe equivalso a “mollare” il controllo del territorio: era infatti sufficiente (così come lo stesso Giorgino era solito fare) ritornare di tanto in tanto clandestinamente nel territorio di influenza, per risolvere le questioni più problematiche, delegando le altre incombenze a persone di fiducia». Reggio, per Molinetti, «è maledetta… perché l’esperienza ci insegna che per niente ci fanno fare trenta anni di galera», ma «se non c’è la tua figura là… la tua storia» si rischia di perdere il controllo del territorio. L’opzione giusta, per “Malefix” è questa: «Una parola… facciamo noi i chilometri… la notte scendiamo… facciamo quello che dobbiamo fare e torniamo». Prospettive e generazioni a confronto in un’intercettazione che va al di là del tentativo di cercare un’intesa tra due anime del clan De Stefano. Dentro queste parole ci sono le strade che la ‘ndrangheta reggina potrebbe prendere, o ha già preso. La tensione tra il controllo stretto del territorio d’origine e la scelta di emigrare definitivamente dove i denari e le prospettive sono (quasi) illimitati, come la possibilità di svanire e sottrarsi alle indagini. Dove i paparazzi sono appostati sotto casa per documentare l’ultima love story e Giorgio De Stefano è soltanto un «famoso imprenditore calabrese che viene da una importante famiglia». (p.petrasso@corrierecal.it)
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