VIBO VALENTIA È il 27 ottobre 2011 quando nel parcheggio del noto centro commerciale “Due Mari” un uomo ancora ignoto si avvicina ad un altro e, pistola in pugno, prima lo minaccia, poi gli sottrae con la forza le chiavi del furgone, un Fiat Doblò. Ma non si accontenta, portando con sé anche il portafoglio e il telefono cellulare. La vittima della brutale rapina denuncia tutto alle forze dell’ordine, raccontando quello che è accaduto in una zona dei parcheggi del centro commerciale peraltro non coperta dalla sorveglianza costante delle telecamere.
Solo in un secondo momento e nel corso dell’inchiesta “Rimpiazzo”, condotta dalla Dda di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri, si scopriranno le vere ragioni del furto e, soprattutto, l’identità del rapinatore. Non un nome qualunque. Si trattava, infatti, di Raffaele Moscato, braccio armato del clan dei Piscopisani e collaboratore di giustizia dal 2015. Nelle sue dichiarazioni finite nelle motivazioni della sentenza, è lui a descrivere ciò che è accaduto 11 anni fa.
«Ho aspettato là circa cinque minuti con questa arma (una calibro 38 ndr), mi sono fatto una passeggiata là in questi parcheggi ma – racconta Moscato – dopo tre minuti proprio che ero arrivato, arriva uno che parcheggia un Doblò bianco, un furgone nuovo. Gli punto la pistola e gli dico di scendere perché mi serviva il furgone. Questo tipo che non voleva nemmeno capire, carico la pistola e gliela punto nella gamba e gli dico “due secondi e ti sparo”, ed è sceso. Prendo il furgone, lo porto a Piscopio». Ad accompagnare al Due Mari Moscato è stato Rosario Battaglia perché «serviva un furgone» dice Moscato, e il volto «ce lo avevamo scoperto diciamo». La destinazione fissata era la Loggia, ovvero la campagna di Piscopio. «Prendi il furgone e ci vediamo là» dice Battaglia a Moscato, e così è stato.
Un furto ben organizzato, dunque, portato a termine senza difficoltà. Il furgone, però, serviva per uno scopo ben preciso, né per altre rapine «né per altre cose», precisa Moscato. Il piano era ben articolato e con conseguenze ben più gravi: serviva per portare a termine l’agguato contro Pantaleone Mancuso. «Lo dovevamo bucare – spiega Mancuso – dovevano fare dei buchini per vedere l’obiettivo anche dentro al furgone e serviva poi esclusivamente per questo». «È stato portato poi a casa di Rosario Fiorillo – spiega Moscato – dal padre che aveva dei garage. Quando siamo partiti quella mattina, siamo partiti da là con questo furgone rubato poi ho controllato dei documenti che c’erano nel cassettino e il proprietario risultava uno di Lamezia Terme, però non di mia conoscenza». «Già molto prima si stava organizzando l’agguato a Pantaleone Mancuso, prima del furgone. Quindi il furgone è normale che serviva per quello, si sapeva».
Le dichiarazioni di Moscato, riportate nelle motivazioni della sentenza, forniscono anche il quadro di quello che si può considerare il modus operandi di Moscato e dei suoi sodali. «Non ci sono mai state discussioni, non ci sedevamo al tavolo a dire che “dobbiamo fare così o dobbiamo fare colì”, era tutto un attimo. Ci serve un furgone, accompagnalo a Lamezia e vai a prendere un furgone e si fermava il discorso. Non c’era tanto da parlare, non lo so però non c’era tanto da parlare. Ci prendevamo la macchina, Rosario Battaglia mi accompagnava, io avevo la ‘38 in tasca. O tre minuti, o tre ore o cinque ore, io un furgone da là lo dovevo prendere e lo prendevo. Questo era il discorso». «La stessa cosa a Tropea – racconta Moscato – ci serve un furgone, vado là e mi prendo un furgone e poi lo porto in campagna. Si parcheggia il furgone dove si doveva parcheggiare e quel giorno che si doveva partire si parte. Non c’è mai stata una organizzazione vera e propria, il discorso più lungo era di cinque minuti». (redazione@corrierecal.it)
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