LAMEZIA TERME Sono trascorsi 47 anni dall’omicidio del magistrato Francesco Ferlaino. Un cold case scottante e ancora irrisolto. Ferlaino era avvocato generale alla Corte d’Appello di Catanzaro. Il 3 luglio 1975, all’ora di pranzo stava rientrando a casa, su corso Nicotera a Lamezia Terme. In pieno giorno, in pieno centro, poco dopo le 13, Ferlaino era sceso dall’auto che lo aveva lasciato sotto casa e aveva salutato l’appuntato che lo aveva accompagnato quando è stato raggiunto alle spalle da due scariche di pallettoni esplosi dal marciapiedi opposto, dove si era fermata l’auto degli assassini.
La vicenda è stata analizzata sotto una luce inedita in due libri scritti a quattro mani dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dallo studioso e professore universitario Antonio Nicaso: “Padrini e Padroni”, dato alle stampe nel 2016, e “Storia segreta della ‘ndrangheta”, pubblicato a ottobre 2018.
Lo storico collaboratore di giustizia Giacomo Lauro, uno dei primi pentiti di ‘ndrangheta negli anni 90, parlando dei legami tra ‘ndrangheta e massoneria ha raccontato agli investigatori della Dda di Reggio Calabria di essere stato in carcere con Paolo De Stefano (a capo dell’omonima, potentissima cosca reggina) e di avere ricevuto da lui importanti informazioni.
Giudici, prelati, notai. Lauro non risparmia nessuno. Poi viene aperto anche il capitolo Ferlaino.
«Non ho contezza su chi siano stati i mandanti e gli esecutori materiali – dice Lauro –; posso però fornire importanti particolari sulla causale del fatto di sangue, appresi dal defunto Paolo De Stefano. Il giudice Ferlaino venne ucciso perché si ruppero gli equilibri all’interno della massoneria. Il Ferlaino, che era massone, all’epoca della sua morte ostacolava il nuovo progetto massonico-affaristico, che cominciava ad attecchire specialmente al Sud sotto la regia di Licio Gelli, che prevedeva l’accaparramento di ogni affare vantaggioso lecito o illecito che fosse. In sostanza, il Ferlaino si opponeva alla degenerazione della struttura massonica, da organismo lecito a illecito. Tutto ciò, per come anticipato sopra, mi è stato detto da Paolo De Stefano e, durante la seconda guerra di mafia, mi è stato confermato anche da Pasquale Condello il quale, in un momento d’ira, determinato anche dalla morte del fratello Domenico Francesco, mi disse che Paolo De Stefano era presente proprio quando personaggi massonici e personaggi mafiosi decisero di sopprimere il giudice Ferlaino».
In sostanza, scrivono Gratteri e Nicaso, in “Storia segreta della ‘ndrangheta”, «Ferlaino si opponeva alla degenerazione della massoneria, con la costituzione di logge segrete sfuggite al controllo degli organismi istituzionali massonici e diventate ben presto luogo di incontri criminali».
Ma c’è di più. Esiste un lato oscuro nella vicenda Ferlaino che la accomuna a quella di tanti omicidi eccellenti ai quali è stato sottratto il bandolo della matassa.
Poco prima di essere ucciso, il giudice aveva parlato con alcuni componenti del Consiglio superiore della magistratura. Il Csm aveva, infatti, aperto un’inchiesta e inviato in Calabria una commissione composta dai “togati” Antonio Buono e Francesco Gisto e il “laico” Giuseppe Ferrari.
«In quella circostanza – è scritto nel libro – era stato audito anche Ferlaino, il quale aveva denunciato di essere esposto a grossi rischi e affermato di non poter aggravare la sua posizione con ulteriori dichiarazioni a carico di personaggi altolocati e inseriti in settori nevralgici della macchina statale, quali politici, avvocati, magistrati, membri delle forze dell’ordine e persino parlamentari. Nella sua relazione finale, che consta di 45 cartelle, la commissione d’inchiesta accenna a possibili e pesanti infiltrazioni mafiose nella magistratura e nella politica. Succede, però, qualcosa di imprevedibile. Nel novembre 1975 il consigliere Buono denuncia la scomparsa del dossier con relativi allegati dal suo studio privato in Roma».
Un tassello importante nelle indagini sulla morte di Francesco Ferlaino è misteriosamente scomparso. «Un epilogo – scrivono Gratteri e Nicaso – che conferma la pericolosità sociale della ‘ndrangheta e dei suoi alleati istituzionali». (ale.tru.)
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