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Scommesse mafiose, il “gioco sporco” dei clan di Cosenza e gli imprenditori borderline. «Non vittime ma complici»

Storia criminale del gaming, dalla società legata al capoclan Lanzino alla ‘ndrangheta confederata. Un poliziotto tra le figure chiave. Rapporti tra Sibaritide e Jonica reggina: il ruolo del figlio…

Pubblicato il: 24/09/2022 – 6:47
di Pablo Petrasso
Scommesse mafiose, il “gioco sporco” dei clan di Cosenza e gli imprenditori borderline. «Non vittime ma complici»

COSENZA Il settore del gaming a Cosenza è aperto «solo a imprenditori conniventi che versano una parte dei proventi ricavati dalla gestione di sale da gioco e di attività di scommesse nella cosiddetta “bacinella”». Giudizio tranciante quello della Dda di Catanzaro. La richiesta di applicazione di misure cautelari per l’inchiesta “Reset” paragona il tipo di controllo esercitato dalla ‘ndrangheta a un «filtro all’accesso». Il gioco, spiegano i magistrati antimafia, è uno dei core business della federazione criminale bruzia: «Attività estremamente redditizia che, se per un verso consente la realizzazione di ingenti guadagni, dall’altro, essendo caratterizzata da una costante movimentazione di enormi flussi di capitali, si presta agevolmente a fungere, da meccanismo di ripulitura del denaro “sporco”». Per queste ragioni «essenziali», la gestione del gaming sarebbe «divenuta monopolio della confederazione criminale operante sul territorio bruzio». Il settore, dunque, sarebbe chiuso «a soggetti non facendo parte della confederazione criminale egemone o, comunque, non orbitanti intorno a essa».

Il modello di gestione: dal figlio del boss Lanzino ai clan confederati 

In principio, secondo la geopolitica mafiosa del cosentino, era il gruppo Lanzino-Ruà-Patitucci a operare nel settore «attraverso una società facente capo al figlio di Ettore Lanzino, Emiddio». È, per i magistrati, un dato «centrale» dal punto di vista storico perché mostrerebbe «la perpetuazione da parte della federazione criminale operante, attualmente, sulla città di Cosenza, di un modulo organizzativo affermatosi nella gestione del settore del “gaming” già negli anni precedenti». Lo schema ipotizzato dall’accusa si ripete, insomma: «Già la società facente capo a Emiddio Lanzino – figlio del boss Ettore – in poco tempo aveva instaurato una sorta di monopolio nella gestione dei giochi e delle scommesse, salvo alcuni limitati casi in cui era consentita una coesistenza tra il predetto ente ed altri soggetti abilitati ad operare nel settore. Tuttavia, tali eccezioni erano consentite, sempre e comunque, sotto l’egida della consorteria, ossia esclusivamente a favore di soggetti o società vicini ad altri elementi di spicco del clan o che, comunque, ne avevano preventivamente ottenuto benestare».  

Gli imprenditori del gaming: non vessati ma «complici della ‘ndrangheta»

Gli imprenditori del gaming: non vessati ma «complici della ‘ndrangheta»

I gruppi criminali di Cosenza, secondo il meccanismo ipotizzato dai magistrati antimafia, avrebbero preteso dalle agenzie di scommesse «il versamento di una quota dei loro guadagni nella cosiddetta “bacinella”, in modo tale da far confluire le somme tra le risorse della consorteria, rendendole così utilizzabili per il finanziamento delle attività illecite e per assicurare la percezione ai sodali di lauti compensi». L’inchiesta “Reset”, però, affronta il ruolo di una serie di imprenditori: per loro il contributo da versare nella “bacinella”, «lungi dall’assumere i tratti tipici» di un’estorsione, «si atteggia come prestazione corrispettiva effettuata nell’ambito di un più articolato rapporto sinallagmatico tra gli stessi ed i membri dell’associazione a delinquere». Fuori dai tecnicismi: questi imprenditori verserebbero la loro quota in cambio della possibilità di mantenere il predominio sul mercato. Non vessati, dunque, ma complici. Sarebbero, in sostanza, soggetti «non qualificabili come vittime dei ricatti e della violenta affermazione egemonica della consorteria criminale, ma come consapevoli conniventi e complici della stessa». Imprenditori che «ricavano un’ottimizzazione dei loro guadagni» dai rapporti «intessuti con la locale criminalità organizzata». 

Drago, Chiaradia, Orlando: le figure chiave del business a Cosenza

Carlo Drago, considerato nella geografia criminale cosentina uno degli esponenti del “gruppo Porcaro”,  sarebbe una delle figure chiave nella storia del “nuovo” gaming bruzio e dei suoi legami con la ‘ndrangheta. Il suo «elevato spessore criminale» ne fa uno «snodo tra gli interessi dell’imprenditoria connivente attiva nel settore dei giochi e delle scommesse e le aspettative di guadagno del clan di cui fa parte». Uno dei riflessi della sua caratura criminale sarebbe rappresentato dalla «affermazione nel settore dei giochi e delle scommesse anche di soggetti legati a lui da vincoli di parentela acquisita», cioè gli appartenenti alla famiglia Reda (Andrea, Paolo e Francesco, tutti indagati nell’inchiesta). La stessa logica – quella di un rapporto con la criminalità subordinato all’ottenimento di maggiori profitti – sarebbe estesa ad «altri soggetti». Daniele Chiaradia, arrestato nel giorno del blitz, seppure legato in passato a una donna appartenente dalla famiglia dei Forastefano di Cassano allo Jonio, «è riuscito a ritagliarsi una propria autonomia, sotto l’imperio della confederazione italo-zingara, godendo, da un lato della copertura istituzionale garantita dal suo socio di fatto Silvio Orlando (poliziotto in servizio presso la Procura della Repubblica di Cosenza, ndr) e dall’altro dell’appoggio di Cristian Vozza, (in virtù dei suoi legami parentali con elementi di spicco della cosca degli Zingari di Cosenza, ndr), il quale supporta Chiaradia nella conduzione della sua attività illecita intervenendo, soprattutto nella fasi di fibrillazione, al fine di dirimere con metodi molto poco ortodossi questioni che richiedono l’utilizzo delle cosiddette maniere forti». Sia Orlando (che secondo il gip distrettuale rivestirebbe «un ruolo di primo piano nel gruppo criminale») che Vozza – entrambi incensurati – sono indagati e sono finiti agli arresti domiciliari il giorno in cui è scattata l’operazione “Reset”. 

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ANTIMAFIA | La conferenza stampa dell’operazione Reset

Il figlio del boss della Sibaritide e i rapporti con i clan della Jonica reggina

Discorso a parte, rispetto alla galassia bruzia del gaming, merita invece la presenza nel settore di Damiano Carelli. Il 42enne, figlio del defunto boss della Sibaritide Santo, si muove su due livelli: da una parte farebbe «valere la sua egemonia nel settore, prevalentemente, nel territorio di Corigliano Calabro»; dall’altra, «attraverso la capacità di costituire alcune importanti alleanze», avrebbe «esteso il proprio raggio d’azione sull’intero territorio calabrese». Si apre, a partire dagli affari di Carelli, il capitolo dei rapporti con Francesco Morabito e Bruno Mollica, definiti dai pm di Catanzaro come «soggetti operanti nel reggino ed aventi punti di collegamento con le cosche operanti nella fascia jonica». Un business estremamente redditizio e ramificato, sottoposto a un rigido monopolio. E indispensabile per rimpinguare le casse dei clan confederati e ripulire denaro sporco. Il gaming a Cosenza, con le luci delle sue “macchine” e il sogno di vincite facili per gli scommettitori, è (anche) questo. E molto altro. (1. Continua)

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