REGGIO CALABRIA Le quantità, ingenti, di cocaina arrivavano al porto di Gioia Tauro dall’America latina all’interno di containers sistemati su navi cargo in transhipment. Poi venivano prelevati, portati fuori dalla zona portuale e consegnati alle diverse organizzazioni criminali committenti. Un’organizzazione sistematica quella messa in luce dalla lunga indagine coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, che ha acceso i riflettori su una praticamente quasi comune e facilmente intuibile dalle tante operazioni antidroga compiute proprio all’interno dello scalo portuale di Gioia Tauro.
I 36 arresti di oggi eseguiti dagli uomini della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, sono il frutto di una lunga indagine che ha scavato a lungo tra i contatti delle persone indagate e le migliaia di messaggi che per una buona parte di tempo erano rimasti criptati. Già perché come accaduto nelle recenti operazioni di ‘ndrangheta in Lombardia, anche in questo caso gli inquirenti sono riusciti a sfondare il muro finora insuperabile alzato dai sistemi “Sky ECC”. Si tratta di un’applicazione di messaggistica crittografata end-to-end prodotta e fornita dalla società canadese Sky Global, utilizzata (e non è certo un caso) dagli appartenenti a gruppi criminali legati alla ‘ndrangheta e al narcotraffico internazionale, che solo a marzo è stata violata da parte delle “law enforcement agencies” di tutto il mondo, una squadra investigativa costituita dalle autorità francesi, belghe ed olandesi, permettendo così di mettere le mani su milioni di messaggi scambiati tra i membri di organizzazioni criminali operanti in diversi Paesi dell’Unione europea, attraverso dispositivi caratterizzati da questo sistema di protezione.
Anche la Dda di Reggio Calabria è riuscita ad acquisire le chat e i contatti, arricchendo così i risultati investigativi già raccolti. Migliaia di messaggi che hanno permesso agli inquirenti di alzare il velo sulle dinamiche criminali interne allo scalo portuale di Gioia Tauro, da sempre crocevia dei traffici illeciti provenienti dal Sudamerica, ricostruendo nel dettaglio l’organigramma fatto di ruoli e compiti ben precisi, da svolgere nelle diverse – e delicatissime – fasi dell’arrivo della droga e dell’esfiltrazione. A cominciare dal “checker”, figura operante sottobordo che verificava modalità e tempistiche dell’afflusso e del deflusso dei container in banchina, in prossimità delle gru operative; il “deckman”, figura operante a bordo nave, in possesso dei piani di sbarco, il quale collabora con il gruista e il checker durante le operazioni; il “planner”, ovvero l’impiegato addetto alla pianificazione delle operazioni di sbarco e imbarco dei container e della loro movimentazione sul piazzale. E poi il “coordinatore operativo” delle attività di sbarco e imbarco dei container su una o più motonavi e il “carrellista”, il conduttore delle straddle carrier, cioè le gru a cavaliere, macchine operative utilizzate per la movimentazione dei container nel piazzale.
E così, in parallelo rispetto alle ordinarie attività lavorative nel porto, numerosi operatori portuali si impegnavano abitualmente all’esfiltrazione di ingenti quantitativi di cocaina occultati a bordo dei container, attraverso il metodo “rip-off” cioè il prelievo di borsoni o scatole contenenti i panetti di cocaina e destinati ad essere reimbarcati su diverse navi dirette in altri porti, per poi raggiungere le ditte destinatarie, totalmente ignare. Secondo quanto ricostruito nelle lunghe indagini, gli esponenti delle organizzazioni sudamericane fornitrici, nei porti sudamericani di partenza o di transito, collocavano le partite di cocaina (rip-on) all’interno dei container e, anche a seconda del quantitativo, in diverse posizioni: subito dietro i portelloni del container per consentire all’operaio portuale “infedele” di realizzarne il prelievo in maniera immediata una volta aperto il portellone; occultati tra la merce lecita, ma in una posizione comunque prossima rispetto al portellone di apertura del container, raggiungibile mediante la rimozione di poche pedane di merce, espressamente indicate dall’organizzazione fornitrice. Per i carichi di droga di minore entità, invece, il metodo scelto era quello di occultare la droga all’interno delle “botole” dove sono alloggiati i motori dei sistemi di refrigerazione dei container. E poi c’è “l’uscita” ovvero quando le partite di cocaina venivano trasportate all’esterno del porto direttamente dagli operatori portuali che ne avevano curato il recupero facendosi carico anche degli enormi rischi.
Ma come avveniva materialmente lo scarico delle ingenti quantità di cocaina all’interno del porto? Innanzitutto venivano impiegate almeno cinque persone, movimentando in tutto quattro container: quello indicato dall’organizzazione criminale sudamericana mittente della cocaina; quello individuato dall’organizzazione criminale italiana importatrice, abitualmente già presente da alcuni giorni sul piazzale e verosimilmente già sottoposto con esito regolare ai controlli doganali; un container vuoto, casualmente scelto tra quelli presenti sul piazzale, da adibire al mero trasporto dei componenti della “squadra” e infine un container da 40 piedi scelto a caso tra quelli presenti sul piazzale. Due componenti della manovra, dopo aver abbandonato la loro regolare attività lavorativa, dedicavano il loro temo all’individuazione dei container e del luogo migliore, una posizione periferica, un’area priva di container da un estremo e occupato da altri container (ovviamente non di interesse) dall’estremo opposto, eventualmente esposto verso l’esterno. Una volta individuata l’esatta collocazione, il container proveniente dal Sud America e il container “uscita” venivano posizionati nello stesso corridoio con i portelloni posti frontalmente l’un l’altro. A quel punto, il container “ponte” veniva posizionato sopra i due container, a cavallo tra loro e garantire la copertura – rispetto a possibili visuali dall’alto – del breve spazio corrente tra i due container appena posizionati. Infine veniva posizionato il container a bordo del quale avevano “viaggiato” gli operatori portuali incaricati ad effettuare il trasbordo, sempre sullo stesso corridoio e a chiudere ulteriormente la visuale terrestre esterna da un lato, atteso che quello opposto era già “chiuso” dalla regolare presenza di numerosi ulteriori container. E così, una volta usciti dal quarto container, gli operatori portuali si occupavano, a terra, del trasbordo della cocaina dal container proveniente dal Sud America al container “uscita” (posti frontalmente l’un l’altro) e, una volta ultimata l’operazione, assicuravano i due container con dei sigilli contraffatti.
Una volta che la “squadra” portuale aveva realizzato il trasbordo della droga, il gruppo criminale dava mandato alla compagine addetta all’uscita di procedere al ritiro del container dal porto. Secondo gli inquirenti il gruppo criminale si serviva evidentemente della compiacenza delle ditte operanti nel settore del trasporto merci che procedevano al ritiro del container “uscita” attraverso una propria motrice, subordinando la propria normale e regolare pianificazione aziendale. Infine, il mezzo pesante aziendale ritirava dal porto il container “uscita”, trasportandolo in un luogo indicato dal gruppo criminale committente che procedeva allo “scarico” della cocaina. E, solo in un secondo momento, si procedeva con la normale movimentazione della merce lecita, destinata ad una ditta allo scuro di tutto. (redazione@corrierecal.it)
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