RENDE Il grande assente nel conflitto in Ucraina è il tema della pace. Se si escludono i continui appelli di papa Francesco, l’argomento della ripresa delle trattative e del dialogo per cercare di risolvere la guerra scoppiata nel cuore dell’Europa, sono usciti fuori dai radar della politica internazionale. Anzi, se qualche iniziativa viene proposta per scuotere le coscienze, con manifestazioni, cortei o marce per la pace, i promotori vengono quasi additati come “amici di Putin”. Come se la scelta pacifista fosse a favore di una o l’altra parte in conflitto e l’unica opzione in campo, restasse quella di armare ancor di più gli aggrediti per ottenere la cessazione delle ostilità. Una strada che però rischia di far precipitare l’intero Continente in un’escalation senza fine, in cui qualsiasi opzione militare non può essere esclusa. Neppure l’uso di armi nucleari, più volte minacciato dalla Russia.
Per questo la via alternativa, seppur al momento più complessa, di riportare al centro della discussione politica il tema della pace diviene ancor più stringente. Un tema che è stato scelto dal dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria per inaugurare il “suo” anno accademico. Una rassegna che dal 10 al 14 ottobre animerà le aule dell’Ateneo di Arcavacata con una serie di appuntamenti che hanno come protagonista “Guerra e pace”. E che rispondono ad «un preciso obbligo istituzionale, oltre che morale», come sottolinea Ercole Giap Parini, sociologo e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria. Secondo il direttore, si punta a centrare questo obiettivo «attraverso percorsi di consapevolezza delle difficoltà che il mondo vive in questo momento».
Professore, il conflitto in Ucraina ha fatto comprendere che la pace anche in Europa è tutt’altro che scontata. C’era qualcosa che anche come Italia si poteva fare per evitare che la situazione degenerasse?
«Non voglio entrare nelle specifiche questioni che riguardano la politica internazionale dell’Italia e il suo ruolo nella Nato. Tuttavia in questi anni avremmo sicuramente potuto fare di più per tenere viva la sensibilità verso le questioni della pace, come risorsa che garantisce benessere e soprattutto sviluppo civile e sociale. Troppo spesso i pur tanti conflitti che sono scoppiati negli ultimi decenni sono stati intesi, dai cittadini di questa parte di mondo, non senza una certa dose di ipocrisia, come pericoli lontani a cui dedicare tutt’al più qualche apprensione distratta o di comodo. È anche per contrastare questa attitudine all’oblio e all’indifferenza che inauguriamo l’anno accademico del DiSPeS, pensando che sia necessario sviluppare una nuova consapevolezza».
Le notizie che provengono dal fronte riportano un livello di tensione che sembra ormai inarrestabile. Anzi l’escalation fa temere anche l’uso di armi nucleari. C’è ancora speranza per riportare la pace?
«La speranza per riportare la pace non deve morire mai. Ci deve essere una consapevolezza, direi naturale, a tutela della vita e per la conservazione della specie. Tuttavia, sembrano rievocati oggi gli stessi incubi che la mia generazione, quella che si è formata negli anni della guerra fredda e della deterrenza nucleare, ha vissuto: un epilogo allora temuto, non lo meritano la nostra e le successive generazioni. In questi anni ci siamo dimenticati di quegli incubi che ispiravano la deterrenza civile e sociale prima ancora che militare. Con troppa facilità oggi si parla di armi nucleari e di soluzioni al conflitto in questi termini. Bisogna innanzitutto riattivare meccanismi conoscitivi e nel suo piccolo il DiSPeS mette a disposizione i suoi storici, economisti, giuristi, scienziati sociali, esperti di comunicazione e in generale i suoi intellettuali, al servizio della conoscenza e quindi delle ragioni della pace».
C’è un dibattito vivace tra chi sostiene che il ripudio della guerra dovrebbe essere totale e dunque non dovrebbe contemplare l’invio delle armi all’Ucraina e chi viceversa afferma il contrario. Non crede che sia difficile capire come si possa essere pacifisti ma giustificare il sostegno militare ad un paese belligerante, seppure invaso?
«Questa è la questione più importante. Una questione a cui nessuno può dare facili o definitive risposte. Tuttavia, costruire percorsi di conoscenza e consapevolezza significa aprire luoghi di confronto e di dibattito sulle soluzioni da adottare che rimettano in gioco la capacità della sfera pubblica politica di costruire percorsi di soluzione ai conflitti che non contemplino la morte dei civili, fino alla devastazione nucleare. Se si è arrivati a questo punto è anche perché ci siamo dimenticati di quanto dolorosi siano, a livello globale ormai, simili soluzioni. Questo è anche il segno di un forte indebolimento della sfera pubblica politica internazionale, che ha abdicato al suo ruolo. Un grande sociologo, nonché caro amico, da poco scomparso, Franco Crespi, metteva in guardia da come la globalizzazione, che avrebbe potuto essere occasione per favorire percorsi di confronto e incontro intersoggettivo tra differenze e culture, in nome di percorsi identitari inclusivi e sempre più laschi, si sia trasformata in una arena dove emergono conflittualità legate a identità sempre più circoscritte, locali, spesso di impronta tradizionalista e portate all’esclusione anche violenta».
La guerra in Ucraina ha fatto emergere nuovamente quanto possa pesare la propaganda per giustificare da un verso l’invasione e dall’altro la difesa del Paese. Quale approccio linguistico occorrerebbe intraprendere viceversa per riproporre il tema del dialogo?
«Intanto, tra le altre cose, con questa rassegna di eventi daremo elementi per orientarsi dentro al “chiasso” delle opposte propagande che fanno perdere il senso delle cose e soprattutto il barlume della saggezza. Questo anche per promuovere possibilità di discorso pubblico capaci di neutralizzare coloro che fomentano l’odio e le divisioni. Soltanto al di fuori dei toni della propaganda, dei nazionalismi, delle identità forti, è possibile contemplare soluzioni ispirate da principi universalistici, come quelli della pace tra i popoli. Nel nostro piccolo, pur in un’area periferica del centro del mondo occidentale, il nostro dipartimento promuove un’attenzione ai linguaggi anche in senso strategico, capaci di favorire il riconoscimento reciproco. D’altra parte siamo pur consapevoli che le guerre, oltre che con le armi, si combattono con i mezzi di comunicazione, che usano tanti linguaggi, volti a influenzare in un modo o nell’altro il pubblico, anche attraverso retoriche e immagini, costruite a tavolino. Sono queste tecniche che il mondo accademico deve aiutare a disinnescare. E non è solo verso il pubblico che questi mezzi e linguaggi hanno effetto. In una guerra ibrida, come quella in atto, i media sono armi in tutti i sensi. È per tutti questi motivi che la rassegna che stiamo avviando è destinata non soltanto alle nostre studentesse e ai nostri studenti ma a tutte le persone che vogliono affrontare le attuali crisi con gli strumenti che la conoscenza può offrire». (r.desanto@corrierecal.it)
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