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«Quel cosentino geniale che inventò la marcia su Roma»

Tra pochi giorni cadrà il centesimo anniversario della marcia su Roma, esordio istituzionale del regime fascista, tirato impropriamente in ballo dalla strategia elettorale di Enrico Letta e coinci…

Pubblicato il: 17/10/2022 – 10:08
«Quel cosentino geniale che inventò la marcia su Roma»

Tra pochi giorni cadrà il centesimo anniversario della marcia su Roma, esordio istituzionale del regime fascista, tirato impropriamente in ballo dalla strategia elettorale di Enrico Letta e coincidente con l’ingresso alla guida del governo di un partito altrettanto impropriamente accostato al Pnf.
Per descrivere quanto fossero illiberali i governi liberali di inizio novecento basterebbe citare che Michele Bianchi da Belmonte Calabro, socialista rivoluzionario, fini ben tredici volte in galera, per proteste pubbliche, praticamente sino alla costituzione dei Fasci.
E Michele Bianchi fu colui che ideo la marcia, la guidò da quadrumviri, rese organico il fascismo istituzionale per diventare, nella sua breve vita, un meridionalista tra i più illustri del secolo scorso, riconosciuto come tale anche dalla storiografia di sinistra.
Nato il 1882 nel paese tirrenico da famiglia borghese, un anno più grande del futuro Duce, ideologo sopraffine e teorico della socializzazione dell’industria, vero punto cardine della composizione ideologica del partito di Mussolini, Michele aderì al partito socialista il 1903, appena raggiunta la maggiore età.
Liceo Classico tra San Demetrio Corone e Bernardino Telesio, studente irregolare di giurisprudenza, fu Arturo Labriola a convertirlo al marxismo.
Assunto come giornalista all’Avanti, ci stette un anno, per fondare successivamente, ispirandosi a Lenin, La Scintilla.
Bianchi cercava una via sintetica e più approfondita al marxismo, via via abbandonato per dedicarsi alla figura di Proudhon.
Poi, l’interventismo nella prima guerra mondiale vissuta come volontario, l’espulsione dal Psi, l’amicizia con Corridoni e l’incontro fulminante con Mussolini, il 1919, che culminò con la nomina a redattore capo de Il Popolo d’Italia.
Tralasciando la sua biografia, che riprenderemo dopo, Bianchi fu l’uomo che decise di marciare su Roma.
Un epilogo simbolico all’ascesa del fascismo dopo tre anni di scontri, violenze e tensioni.
Tre anni prima, in occasione dell’impresa di Fiume, Mussolini aveva detto che: «Bisognava arrivare a Roma per fronteggiare la decadenza del giolittismo».
Bianchi indicò la manifestazione nella capitale già all’indomani delle elezioni del 1921 che avevano assegnato 30 deputati al Pnf.
Il cosentino divenne primo segretario nazionale del partito nell’autunno dello stesso anno
L’organizzazione della marcia prevedeva la riunione cardine di Napoli, quattro giorni prima.
Nella sala del San Carlo invitò a dare la risposta al decadente governo Facta, con il motto: «A Napoli piove, che ci stiamo a fare?»
Ciò che accadde dal 28 al 30 ottobre è risaputo. L’arrivo dei sessantamila, l’assoluta inedia delle forze di polizia, da anni contrari anche al Re, la decisione del sovrano di affidare al futuro Duce, a soli 39 anni, l’incarico di formare il Governo.
Dire che fu un colpo di Stato sarebbe una scemenza. La scissione di Livorno, la rivoluzione russa, l’alleanza del Pnf con la borghesia industriale, lo spauracchio di una deriva marxista furono le condizioni base per lasciare campo al fascismo.
La forza dell’esercito avrebbe consentito di domare quella manifestazione che Vittorio Emanuele usò come pretesto per affidare a Mussolini la creazione di un governo che ebbe, com’è noto, per i primissimi anni l’appoggio di importanti elementi liberali, prima di debordare verso la dittatura.
Bianchi divenne, nella sostanza, da subito ministro degli interni, occupando il ruolo di segretario generale. Contribuì alla stesura della famigerata legge Acerbo e fu l’ideologo del manifesto sociale del partito regime.
Eletto, ma superato da Pietro Mancini, alle elezioni del 24, ebbe il merito di regalare a Cosenza un podestà come Tommaso Arnoni e il demerito grave di lasciare a casa Luigi Fera.
Da sottosegretario ai lavori pubblici realizzò Camigliatello e l’altopiano silano. Fu ministro dei lavori pubblici per soli 4 mesi prima che la tubercolosi lo strappo alla vita a soli 48 anni.
Il regime ne fece un idolo. A Belmonte fu costruito un mausoleo stupendo che andrebbe restaurato. Giacomo Mancini, che 34 anni dopo prese il suo posto a Porta Pia, diceva che era scandaloso che Cosenza gli avesse dedicato una strada anonima, dopo che la piazza principale che ospitava la sede del Pnf diventò giustamente, nel dopoguerra, Piazza Cappello, in onore di un martire del fascismo. Di fondo, Michele Bianchi, come il suo amico emiliano, rimase socialista. E da socialista di quegli anni morì povero.

*giornalista

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