CATANZARO Circa un milione e mezzo di famiglie che equivalgono a 3 milioni e 386 persone hanno ottenuto la copertura del reddito di cittadinanza in Italia nei primi 8 mesi dell’anno. Un trend in aumento rispetto al 2021 quando lo strumento nato anche per contrastare la povertà diffusa nel nostro Paese aveva interessato in dodici mesi, 1,6 milioni di nuclei familiari per 3.764.791 persone.
Sostegni necessari per rendere più decorosa la vita di quanti non riescono a tenere il passo, ma ancora non sufficienti a raggiungere la grande platea dei poveri assoluti, cioè del popolo sommerso degli invisibili. Quelli che sprofondano nelle viscere della società italiana, vivendo ai suoi margini. Stando ai dati rilasciati dall’ultimo report della Caritas “Anello debole”, il numero delle persone che sopravvivono in queste condizioni si è ulteriormente allargato, arrivando a contare un milione e 960mila famiglie pari a 5 milioni e 571mila persone cioè il 9,4% dell’intera popolazione italiana. Stando alla fotografia scattata dagli operatori che restano in prima linea nel sostegno agli ultimi, il reddito di cittadinanza ha raggiunto meno della metà dei poveri assoluti: esattamente il 44%. E solamente il 22,3% dei soggetti assistiti dalla rete di solidarietà della Caritas.
Numeri che si ingigantiscono poi se confrontati con quanto avviene nel Mezzogiorno, dove un cittadino su dieci vive in condizioni di povertà assoluta ed il reddito di cittadinanza diviene in alcuni casi l’unica ancora di salvezza per non sprofondare negli abissi della disperazione. Numeri che dovranno essere tenuti sotto attenta osservazione da quanti si apprestano – almeno stando alle dichiarazioni politiche – a modificare o abolire lo strumento che in Italia – dopo il Rei (Reddito di inclusione) introdotto nel 2018 – ha previsto una misura già da anni presente negli altri Paesi europei. E che interessa molto da vicino una regione come la Calabria che resta stabilmente agli ultimi posti in Italia, per tasso di ricchezza diffusa.
Il reddito di cittadinanza in questo senso – al di là di furbetti e truffatori – ha costituito una sorta di argine al diffondersi della povertà tra la popolazione. Così come per il resto delle regioni del Mezzogiorno che risulta l’area che ha maggiormente usufruito di questo strumento. Dai dati dell’Osservatorio sul Rdc, infatti, emerge che fino ad agosto scorso il 64,2% delle famiglie che hanno ottenuto un sostegno, vive al Sud e nelle Isole.
Nei primi otto mesi dell’anno sono stati 934.584 i nuclei familiari che vivono nel Mezzogiorno che hanno potuto contare su quell’assegno. Si tratta di 2.251.381 persone che hanno usufruito di un contributo medio di 609,42 euro mensili. Una media più alta del resto del Paese (582,04 euro) e del Nord Italia (521,72 euro).
Da qui l’attenzione che andrà posta su eventuali modifiche di una misura che ha certamente contenuto il disagio economico-sociale di una larga fetta della popolazione meridionale. E che alla luce dei rincari legati all’inflazione galoppante e del caro bolletta rischia di accrescersi. Senza alcun paracadute, il divario di cittadinanza rischierebbe di divaricarsi con ricadute, sulla tenuta sociale dell’intero Paese.
E se il Reddito di cittadinanza si è rivelato uno strumento di contrasto alla povertà che si è rapidamente diffusa nel Paese, in Calabria è riuscito a coprire un’ampia fetta della popolazione. I dati indicano infatti che ha usufruito di questo assegno ben il 13 per cento delle famiglie residenti. E nel corso degli anni questa misura ha coinvolto via via sempre più persone nella regione. Passando da 178.077 beneficiari del 2019 – anno del varo della misura di contrasto alla povertà – ai 240mila del 2021. Segnando una crescita di circa il 53% dei soggetti che sono stati coperti dall’assegno, così come ad aumentare è stato il numero di nuclei familiari: da 67.337 di tre anni addietro a 103.021 del 2021. È cresciuto anche l’importo medio che ha raggiunto i calabresi meno abbienti, passando in tre anni da 518,15 euro del 2019 a 567,21 euro di agosto scorso. Nell’ultima rilevazione dell’Osservatorio sul Rdc, emerge che nei primi otto mesi dell’anno sono state 98.539 le famiglie che hanno potuto accedere alla misura garantendo redditi a 224.213 persone.
E c’è un altro aspetto che vede la Calabria particolarmente sensibile a questa misura: l’alto tasso di inclusione dei beneficiari sul numero totale della popolazione.
Dall’analisi dei dati al 2021, emerge che risultano 136 percettori di reddito o pensione di cittadinanza ogni mille abitanti. Un tasso che pone la Calabria, al terzo posto in Italia (dopo Campania e Sicilia) per capacità di raggiungere i meno abbienti. La regione è, infatti, tra quelle con la percentuale più elevata di popolazione a rischio povertà nel Paese: oltre quattro cittadini su dieci. Contro il 24,4% italiano.
Dall’altro verso però questo strumento che era nato anche per favorire l’accesso al lavoro, non ha centrato l’obiettivo. Nonostante l’alto tasso di beneficiari indirizzati ai servizi per il lavoro, la regione è infatti tra quelle che non hanno garantito poi occupazione. Stando all’ultimo rapporto dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal), emerge che al 30 giugno scorso l’8% dei beneficiari del reddito di cittadinanza sono indirizzati ai servizi per il lavoro: un dato che pone la Calabria al quarto posto in Italia. Ebbene la regione risulta tra le ultime viceversa per numero di beneficiari che hanno ottenuto occupazione: assieme alla Sicilia si attesta ad un valore inferiore al 16%. Numeri e dati che indicano da un verso l’utilità del Rdc come strumenti di sostegno al reddito e nel contempo l’incapacità di introdurre i soggetti beneficiari nel mondo del lavoro.
È la debolezza del mercato del lavoro a creare distorsioni non il reddito di cittadinanza. Ma questo strumento non si è rivelato utile ad accompagnare i beneficiari nel mondo del lavoro. È questa in sintesi l’analisi del RdC che fa Vittorio Daniele, professore di Politica Economica all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro. Secondo Daniele, questa misura non va abolita, ma occorre introdurre dei correttivi per evitare che disincentivi la ricerca di lavoro soprattutto tra i giovani.
Professore quali benefici ha tratto il sistema economico calabrese dall’introduzione del reddito di cittadinanza?
«Il Reddito di cittadinanza (Rdc) è, essenzialmente, una misura di contrasto alla povertà, non una politica per il lavoro. Nelle regioni meridionali, la domanda di lavoratori è strutturalmente insufficiente rispetto all’offerta e ciò si traduce in disoccupazione, sottoccupazione, lavoro nero ed emigrazione giovanile. Per aumentare l’occupazione bisognerebbe creare nuovi posti di lavoro; cosa che, evidentemente, il Rdc non può fare. Inoltre, se non accompagnato da percorsi formativi realmente utili, che andrebbero condotti presso le aziende, il Rdc non è efficace neanche come misura d’inserimento al lavoro. In altre parole, il Rdc allevia le conseguenze, ma non può risolvere le cause del problema occupazionale. Un effetto poco considerato del RdC è quello sulle economie locali. Consideriamo alcuni numeri. Nel 2021, in Calabria, i nuclei familiari percettori di Rdc sono stati 103 mila. Quest’anno, fino ad agosto, sono stati 98.539 per circa 224 mila persone interessate, che salgono a 232mila se includiamo anche la pensione di cittadinanza. L’importo medio erogato del Rdc è stato di 567 euro mensili. Nel solo mese di agosto, in Calabria sono stati erogati circa 42 milioni di euro sotto forma di Rdc. Ipotizzando che il numero di percettori sia costante, il Rdc erogato annualmente in Calabria si aggirerebbe sui 500 milioni di euro. Soprattutto nei piccoli centri, questa spesa contribuisce a sostenere l’economia locale. C’è, dunque, un impatto macroeconomico per questa misura che, l’anno scorso, ha assorbito in tutta Italia quasi 9 miliardi di euro, che per circa il 70% sono andati alle regioni meridionali».
I numeri dicono che è riuscito come misura a fronteggiare il disagio economico. Dal suo punto di vista ha funzionato come strumento di contrasto alla povertà in Calabria?
«Sicuramente il Rdc riduce la povertà, anche se una quota di poveri, che l’ultimo Rapporto della Caritas stima attorno al 55%, ne rimane esclusa. Si tratta soprattutto di stranieri, che non accedono ai sussidi perché residenti in Italia da meno di dieci anni. Per evitare fraintendimenti, bisogna, però, chiarire la definizione di povertà. Nel Sud, una persona è assolutamente povera se ha una spesa per consumi inferiore a 576 euro al mese. Per una famiglia di due adulti e due bambini, la soglia di povertà è di 1.250 euro mensili. Questa soglia varia a seconda della dimensione demografica dei comuni (è maggiore per le città più grandi) ed è del 20% più alta al Nord, in ragione del più elevato livello dei prezzi. Secondo le statistiche ufficiali, nelle regioni meridionali l’11% delle famiglie è in condizione di povertà assoluta e sicuramente una larga parte percepisce il reddito di cittadinanza. In Calabria, le persone che fanno parte dei nuclei familiari che percepiscono il Rdc o la Pensione di cittadinanza rappresentano il 13,5% della popolazione calabrese. Povertà non significa, però, solo carenza di mezzi economici. Spesso, la povertà è causa di problemi e dissidi familiari e si accompagna a una condizione di disagio, se non di vergogna, che coinvolge anche i bambini. Il Rdc contribuisce ad alleviare questi problemi, dà la possibilità di una vita più dignitosa, restituisce anche una certa serenità alle famiglie e, in alcuni casi, riduce rischi di devianza sociale. Una funzione sociale importante, rilevante soprattutto nei quartieri più poveri delle grandi città».
I bassi salari che caratterizzano il mercato del lavoro calabrese possono rappresentare un limite a questa misura? In altre parole, effettivamente scoraggiano la ricerca di occupazione?
«Dato il basso importo, il Rdc può spiazzare l’offerta di lavoro per mansioni con scarse qualifiche e bassi salari e, soprattutto, per gli impieghi stagionali o temporanei. Ne è prova il fatto che la carenza di lavoratori si registri soprattutto nei mesi estivi, per esempio nel settore turistico. Diciamolo chiaramente: per molte mansioni, in Italia i salari sono bassi, mentre il costo del lavoro sostenuto dalle imprese è elevato. E quando i salari sono bassi e si offrono impieghi occasionali o di breve durata, è del tutto logico che molti preferiscano un sussidio. Ciò accade soprattutto al Sud, anche perché il costo della vita è più basso. Tra una città del Nord e una del Sud la differenza nel livello medio dei prezzi è del 20% o ancora maggiore, a seconda delle città considerate. Di conseguenza, nei piccoli centri del Sud il sussidio consente di sostenere spese difficilmente sostenibili al Nord. Tuttavia, questa differenza nel potere d’acquisto non è sufficiente a spiegare come mai in Calabria il 13% delle famiglie benefici del RdC mentre in Lombardia il 3,5% e in Veneto solo il 2%. È evidente che la scelta tra il Rdc e un’occupazione non dipende da ragioni culturali o antropologiche, come vogliono far credere alcuni, ma dalla specifica situazione del mercato del lavoro regionale. È la gracilità del sistema produttivo, non il Rdc, all’origine delle distorsioni del mercato del lavoro meridionale. Vede, in passato parte del problema occupazionale al Sud era risolto attraverso le assunzioni nel pubblico impiego. Oggi questo non è più possibile, così il Rdc offre un sollievo alla disoccupazione, alla sottoccupazione e alla povertà che ne deriva».
È stato utile come misura a ridurre il fenomeno del lavoro nero così diffuso nella nostra regione?
«A quali condizioni una persona è disposta ad accettare un lavoro in nero, sottopagato o forme di sfruttamento? Quando quella persona, magari con figli a carico, non ha altre fonti di reddito e, nel contempo, c’è una lunga fila di disoccupati potenzialmente disposti ad accettare lo stesso lavoro. Ecco, il lavoro nero e lo sfruttamento dipendono dalla condizione di bisogno, dalla mancanza di alternative per vivere. Il Rdc rappresenta un “salario di riserva”. Dà a chi lo percepisce la possibilità di rifiutare la precarietà e lo sfruttamento che, al Sud, può assumere forme particolarmente odiose, come la restituzione di parte del salario risultante in busta paga al datore di lavoro. In sostanza, il Rdc ha dato ai disoccupati un potere contrattuale che consente loro di rifiutare lo sfruttamento in tutte le sue forme. È pur vero che se l’importo del Rdc è basso, il percettore può essere spinto ad accettare lavori in nero per integrare un reddito insufficiente, anche a rischio della revoca del sussidio. Ma se il Rdc non ci fosse, il numero di disoccupati disposti ad accettare un lavoro in nero per poter vivere,sarebbe certamente maggiore. Dunque, sotto quest’aspetto, l’effetto del Rdc è positivo. La sua efficacia dipende, però, anche dai controlli che vengono fatti».
Durante l’ultima campagna elettorale si è sollevata la questione dell’abolizione del reddito di cittadinanza. È una scelta che condivide?
«No, non la condivido. Ritengo sia possibile introdurre dei correttivi, come spesso accade quando una misura viene sperimentata sul campo. Si possono modificare, per esempio, i requisiti, per estendere il beneficio a persone povere che, al momento, ne risultano escluse. Si può modificare il Rdc per fare in modo che non disincentivi chi lo percepisce ad accettare proposte di lavoro, anche se per brevi periodi. Andrebbero rafforzati, poi, i controlli per evitare truffe o opportunismi. Si può, poi, ragionare se sia opportuno dare il reddito a giovani in condizione di poter lavorare e che, proprio perché sussidiati, potrebbero essere incentivati a non formarsi e a non attivarsi per cercare un lavoro. In ogni caso, ai giovani con scarse qualificazioni andrebbero date concrete e proficue opportunità di formazione e d’inserimento nel mercato del lavoro. Cosa che, al momento, viene fatta poco e in maniera scarsamente efficace».
Le critiche più forti si sono concentrate sull’aspetto che il Rdc non avrebbe svolto alcuna funzione per facilitare l’avvicinamento tra domanda ed offerta di posti di lavoro. Soprattutto in Calabria.
«Il problema al Sud non è quello di far incontrare domanda e offerta di lavoro, ma è la carenza strutturale di adeguate opportunità d’impiego. Nelle regioni settentrionali, dove queste opportunità ancora ci sono, non c’è bisogno di questo strumento per trovare un impiego. Dato il contesto economico meridionale, penso sia ingiusto attribuire responsabilità a questo strumento e al ruolo svolto finora dai navigator per quel che riguarda il limitato inserimento lavorativo dei percettori di Rdc. Risulta che i navigator abbiano, invece, svolto adeguatamente le funzioni di monitoraggio e verifica loro assegnate. Il futuro di questi operatori è incerto. Comunque, per diverse ragioni, penso che i navigator non avrebbero dovuto assolutamente gestire le proposte di lavoro destinate ai percettori del Rdc, ma queste dovrebbero essere centralizzate a livello nazionale e da lì comunicate direttamente ai destinatari finali».
Vi è comunque la necessità di trovare una soluzione per favorire l’occupazione in una regione ai primi posti in Italia per tasso di disoccupazione. Quale strategia adottare?
«Il governo, le regioni e gli enti locali hanno a disposizione ingenti risorse, che derivano dal Pnrr e dai fondi strutturali europei, da destinare al Sud. Queste risorse non dovrebbero essere dirottate al Nord, ma neanche frammentate in centinaia di piccole opere pubbliche che, pur utili, non generano nuovi posti di lavoro. Andrebbero, invece, in buona parte, concentrate in progetti che possano, a loro volta, attivare investimenti privati. Per esempio, nelle Zone economiche speciali – che ancora sono solo “sulla carta” – o nella logistica portuale. Vede, lo Stato e gli enti pubblici possono creare direttamente posti di lavoro solo quando assumono del personale. In realtà, l’occupazione la creano le imprese, con i loro investimenti che dipendono da scelte economiche. Per creare occupazione, è necessario che il settore pubblico realizzi le condizioni per gli investimenti privati, migliorando l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, offrendo servizi adeguati e realizzando quelle opere infrastrutturali che ancora mancano. Non sarà risolutivo per il problema occupazionale calabrese, ma certamente contribuirà ad alleviarlo». (r.desanto@corrierecal.it)
x
x