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l’intervista

Gli “Strappi” di Emanuele Mancuso. «Pentito per il bene di mia figlia», «la ‘ndrangheta è uno Stato sociale»

Lo speciale TG1 ricostruisce uno spaccato della ‘ndrangheta in Calabria, attraverso il collaboratore di giustizia. «Non esiste affetto se viene meno il vincolo mafioso»

Pubblicato il: 31/10/2022 – 7:49
Gli “Strappi” di Emanuele Mancuso. «Pentito per il bene di mia figlia», «la ‘ndrangheta è uno Stato sociale»

NICOTERA Le telecamere di “Strappi”, lo Speciale Tg1 a cura di Alessandro Gaeta raggiungono Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, roccaforte della cosca Mancuso, la potente consorteria mafiosa che con i suoi tentatoli supera i confini regionali e nazionali estendendo il potere criminale in Sudamerica e Nord Europa. La narrazione è scandita da immagini, musiche e racconti di chi quella famiglia la conosce bene, per averne fatto parte o per averne ripudiato, codici, tradizioni e modus operandi come Emanuele Mancuso, oggi collaboratore di giustizia. Emanuele vive in una località protetta «con 500-600 euro al mese, senza miliardi, barche, case, auto e moto», ma resta per gli ambienti criminali figlio di Pantaleone Mancuso, alias “L’ingegnere”, esponente di spicco, già condannato per gravi reati di mafia, dell’omonima cosca e nipote di Luigi Mancuso, alias “Il Supremo”, principale imputato nell’operazione “Rinascita Scott”, della Distrettuale Antimafia di Catanzaro.

La decisione di collaborare

Emanuele Mancuso racconta il percorso che lo ha portato «a passare dall’altra parte». «Il 18 giugno 2018, ero detenuto e sette giorni prima che nascesse mia figlia, ho deciso di collaborare con la giustizia», dice Mancuso. «Volevo un maschio per continuare la tradizione ‘ndranghetista, ma poi quando è nata mia figlia ho sentito qualcosa dentro che mi ha convinto a pentirmi». Una bambina che oggi ha quattro anni e vive con la madre, affidata ai servizi sociali. Nonostante la sua collaborazione con la giustizia, Emanuele Mancuso sottolinea come la compagna non lo abbia mai seguito, e come non si sia mai dissociata dal contesto criminale. Nancy Chimirri vive con la piccola in una casa famiglia sotto il controllo dei servizi sociali. Un rapporto burrascoso quello di Mancuso con i suoi familiari. «Ho vissuto un’infanzia difficile. Nemmeno il tempo di uscire che mio padre già era in carcere, avrò trascorso due o tre festività con la mia famiglia. All’ordine del giorno c’erano liti, sparatorie e perquisizioni. Mia figlia non deve vedere quello che ho visto io», confessa. «Io stavo sempre alla finestra e piangevo, i carabinieri andavano e venivano da casa mia: era un incubo. E’ dura vivere quando strappi un papà ad un ragazzo di dieci anni, sono cresciuto con determinati valori, ad esempio se mi rubavano la merenda a scuola non dovevo dirlo alle maestre ma alzare le mani, me lo dicevano mia mamma e i miei parenti. Tu cresci per diventare mafioso». Il nucleo familiare è determinante nella formazione di una coscienza, ma nel mondo criminale ti insegnano «a non parlare, il silenzio è mafia e loro ti insegnano a vivere cosi: «Statti cittu», mi ripetevano. E’ meglio andare in carcere che parlare, ripeteva spesso mia madre». Quella stessa mamma diventata «culla della ‘ndrangheta».

Pantaleone Mancuso

«La ‘ndrangheta è uno Stato sociale»

«La ‘ndrangheta è un antistato fortissimo con un enorme consenso sociale», sostiene Mancuso. Che poi aggiunge: «C’era un narcotrafficante che i soldi li regalava, altri si sono comprati escavatori ma non per effettuare dei lavori ma per nascondere armi, droga e borsoni pieni di soldi nelle fosse. Tanti di quei borsoni si sono riempiti di muffa». Ma che fine fanno tutti questi soldi? «I danari non li vedi, l’economia legale da quella illegale non la riconosci più. E’ importante per loro cementare alleanze e sigillare accordi, anche attraverso i matrimoni». Limbadi e Nicotera sono due degli epicentri calabresi della cosca Mancuso, ma le ramificazioni sono in tutta Italia. «E’ in Lombardia, Liguria e soprattutto a Roma. La ‘ndrangheta è uno Stato, impone regole e principi ma più forte dello Stato legislativo. Soprattutto a livello politico, è più credibile: loro fanno i fatti». La crescita esponenziale del potere di un clan ‘ndranghetista è legata al ruolo svolto da chi riesce ad operare nell’ombra. «Gli avvocati sono quelli che hanno più facilità a relazionarsi con i giudici, con i pm e con le forze dell’ordine. Hanno diritto a colloqui in carcere non ripresi e utilizzano il sistema per fare uscire fuori l’ordine del boss dal carcere. Non tutti ovviamente», precisa Emanuele Mancuso. «Alcuni legali non volevano entrare a casa mia, altri andavano via con lo yatch insieme a mio padre, c’erano avvocati che facevano investimenti con imprenditori russi e inglesi, parliamo di tanti soldi. Noi gli avvocati li alleviamo, quando entri nel clan gli diamo lavoro. Loro poi ci devono restituire il favore».

Il rapporto con la figlia

I racconti criminali di Emanuele Mancuso, spesso sono interrotti dalla narrazione di un difficile rapporto con piccola figlia. «Non ho mai fatto il papà, ho vissuto solo attimi di affetto. Fare il padre è altro, devi essere presente quando sta male, quando ha bisogno di qualcosa». Mancuso, da quattro anni collabora con la giustizia, ma solo di recente ha dormito per la prima volta a casa con sua figlia. Ostacoli talvolta paradossali hanno impedito di creare un rapporto. L’8 marzo 2018 viene arrestato e il 18 giugno dello stesso anno matura la decisione di pentirsi. A Milano, gli affiliati si muovono per farlo tornare sui suoi passi, la piccola diventa un’arma di ricatto. «La ‘ndrangheta e la massoneria sono troppi forti», sottolinea Mancuso. Che poi confessa di aver ricevuto proposte per interrompere il percorso di collaborazione.

«Mi dissero ti diamo due milioni di euro, ti apri un bar in Spagna e fai il nome di questi due avvocati che ti fanno passar per pazzo, di tentativi ne hanno fatti tantissimi». La convinzione di chiudere con quella vita resta la priorità per dare un futuro diverso alla figlia. La famiglia Mancuso lo sa e fa recapitare in carcere «una foto con una maglietta piccola di mia figlia con la scritta baby boss». Per la ‘ndrangheta «è necessario delegittimare me e l’ufficio di procura, poi rimane solo la vendetta». A complicare i rapporti con la figlia, il ruolo della mamma. L’8gennaio 2021 Emanuele Mancuso riceve una videochiamata e «mia figlia aveva in mano un grosso coltello da cucina». La piccola confesserà: «Mamma mi picchia». Il comportamento di Nancy Chimirri finisce nel mirino del Tribunale dei minorenni di Roma e nonostante la revoca del programma di protezione, la donna pare non cambiare atteggiamento. D’altro canto è una questione di cultura, ripete spesso Mancuso: «Non esiste affetto se viene meno il vincolo mafioso, quando nasci sei già ‘ndranghetista. Chi mette le bombe non ha cuore».

«Bisogna avere coraggio»

Intervistato, il procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri si sofferma sul vincolo mafioso: «Si nutrono di quella cultura, sentono l’odio e il disprezzo da parte dei genitori e cresce la mentalità mafiosa. Bisognerebbe avere più coraggio, il Tribunale dei minori deve prendere la decisone più giusta e ragionare solo in funzione della crescita dei bambini, sradicare la cultura mafiosa, portandoli a migliaia di chilometri di distanza». Il procuratore poi sottolinea le difficoltà dell’ufficio di protezione dotato di «pochissimo personale». «Servono soprattutto degli psicologi per capire l’umore di chi si ha di fronte, per comprendere meglio il loro disagio». (f.b.)

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