COSENZA Che sia un volto noto per le forze dell’ordine lo si capisce già dall’incipit della scheda contenuta nell’informativa della guardia di finanza confluita negli atti dell’inchiesta Reset. «Innumerevoli sono state le identificazioni del soggetto della presente indagine», Roberto Porcaro, boss reggente della mala confederata di Cosenza quando il titolare Francesco Patitucci è in carcere. Poche righe più giù una foto in penombra che pare uno scatto rubato e l’appunto con il soprannome utilizzato per individuarlo nei dialoghi tra lo stesso Patitucci e la moglie, Rossana Garofalo. «A Te Piasse… me lo saluti», dice il boss in carcere.
A soli 38 anni Porcaro è diventato un habitué delle galere. Il 19 giugno, leggendo un articolo del Corriere della Calabria si lascia andare a una confessione e a un commento preoccupato. Il servizio parla dell’arresto di alcuni agenti della polizia penitenziaria a Cosenza chiesto e ottenuto dalla Dda di Catanzaro. «Adesso stringeranno il carcere ancora di più – spiega – hai capito perché i cosentini non ce li tengono più qua? Per amore di Foggetti e altro». I magistrati antimafia ricostruiscono una trama che racconta il dominio delle cosche cosentine nel penitenziario. I vertici dei clan “Patitucci-Lanzino-Ruà”, “Bruni-Zingari” e “Rango-Zingari” potevano fare di tutto: mandare pizzini all’esterno indirizzati a imprenditori e spacciatori, farsi mandare alcol e droghe, scegliere le celle in posizioni strategiche in modo da affacciare sulla strada e da quella posizione privilegiata comunicare ordini, parlare con i familiari e imporre la propria presenza sul territorio. Le celle si trasformavamo in improvvisati ritrovi per summit mafiosi; una libertà di movimento possibile grazie alla “collaborazione” di alcuni agenti della penitenziaria.
Porcaro legge e commenta: «Te lo sei letto questo, no? “Grave che detenuti ‘ndranghetisti di Cosenza siano rimasti per anni a Cosenza”. Hai capito che modi parlano? “Chi era preposto al controllo non è intervenuto… gli investigatori… in un’occasione un detenuto si è fatto portare un farmaco…”».
Il boss batte le mani per lo stupore e continua a leggere «”per alterare il timbro della voce”. A me! Adesso ti faccio vedere, guarda, vieni qua». La sintesi dei finanzieri è che in quel passaggio Porcaro ammetterebbe di essere il detenuto che avrebbe ricevuto il farmaco in grado di alterare il timbro vocale prima di sottoporsi a una perizia fonica. Circostanza, questa, già segnalata dal pentito Mattia Pulicanò nel verbale illustrativo del 7 ottobre 2014. «Ho appreso da Antonio Illuminato nei primi mesi del 2013 – dice il pentito –, quindi dopo la mia uscita dal carcere, che Roberto Porcaro, all’epoca detenuto, dovendosi sottoporre a consulenza fonica nell’ambito del processo Terminator 4, aveva chiesto allo stesso Illuminato, tramite messaggi pervenuti da terze persone, di poter contattare dei sanitari idonei al reperimento di un farmaco che gli potesse alterare il timbro di voce; ho appreso altresì da Illuminato che ciò in realtà era avvenuto tanto da avergli fatto giungere il farmaco».
Sarebbe una delle prove di come il carcere fosse, all’epoca, una zona franca. E che la logica stessa delle carcerazioni fosse per lo meno dubbia. «Mi auguro – sono parole del procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri nel giorno in cui scattò l’operazione – che gli arresti di oggi servano a costringere chi deve – dal direttore del carcere al direttore del Dap – ad intervenire per fare un po’ di ordine, quantomeno nell’applicazione dell’ordinamento penitenziario. I detenuti di alta sicurezza dovrebbero stare almeno a mille chilometri di distanza dalla propria zona di controllo criminale». È la frase che fa dire a Porcaro, mentre legge l’articolo, «hai capito perché i cosentini non ce li tengono più qua?». (p.petrasso@corrierecal.it)
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