Non sì sa quante persone abbia ucciso oppure ordinato dì uccidere. Certo che Franco Pino, settanta e passi anni, che dovrebbe stare nelle patrie galere, è libero da una vita, dopo essere stato il boss più importante dì Cosenza.
Dì buona famiglia, la madre maestra elementare, il padre macellaio (che uccise per onore un ragazzo reo solo dì avere accompagnato la figlia alla villa vecchia), Franco iniziò da ragazzo a delinquere. La vera mente era suo fratello, Pietro, studente in giurisprudenza, che manca da Cosenza da inizi anni ottanta.
Franco Pino incuteva timore fisicamente, 1,95, sfrontato, amante del lusso, riceveva in un negozio di fiori di via Panebianco vari segmenti della città. Politici, professionisti, commercianti (a cui spesso prestava soldi ad usura) muovendosi quasi come un gran visir.
Se andava in un ristorante ordinava champagne, pagando regolarmente. Un giorno, in un locale raffinato di Rende, cacciò dalla sala un commensale che aveva fatto il guappo con il proprietario.
La leggenda, e la verità, raccontano che il salto di qualità lo fece nel 1977 quando uccise U zorru, ritenuto il capo della criminalità locale ma in realtà sopravvalutato nella sua vera forza.
Pino sì alleò con Tonino Sena nella lunga guerra che seminò morti sulle strade dell’area urbana.
Negli anni Ottanta il passaggio verso un ruolo ancora più incisivo. Raggiunta la tregua con il nemico Franchino Perna, si concentrò sulla criminalità bianca. Patrocinava ditte nelle aziende sanitarie, eleggeva consiglieri comunali e regionali, dava posti di lavoro, sosteneva di essere perseguitato dalla magistratura ordinaria (la Dda non esisteva ancora) che in un’autobiografia ha accusato di fatti pesanti.
Ai principi di quegli anni era il punto di riferimento cosentino della Nco dì Raffaele Cutolo. Un giorno a Napoli fu letteralmente spogliato dell’oro che indossava prima di farsi riconoscere e di avere indietro il maltolto.
Pessimo anche nella vita privata tra figli abbandonati e non riconosciuti, sì pentii nel ’95, con lo scoop de Il Quotidiano della Calabria, sfruttando al massimo i benefici allora riconosciuti ai collaboratori di giustizia.
Chiamò in causa finanche Giacomo Mancini per le elezioni comunali del ’93 che rispose da par suo, accusandolo di avere incassato, con la complicità di un ufficiale dei carabinieri, 800 milioni di lire su un conto al Banco di Napoli prima di scappare verso località ignote.
Le sue rivelazioni sono sempre state ambigue. Rimane l’impressione che abbia detto quello che gli conveniva dire, risparmiando apparati dì potere che gli erano stati utili.
Le cose contenute nell’autobiografia potrebbero far capire molte cose sulla Cosenza degli anni ottanta. Promiscuità tra malavita e legge, connivenze tra imprese, massoneria e politica. Nella boutique di Panebianco passavano tutti.
Nel suo libro “La città oscura”, edito da Falco, il giornalista Gianfranco Bonofiglio ne ha citato le confessioni.
Pare che don Franco abbia ordinato l’uccisione del povero Silvio Sesti, ucciso barbaramente nel suo studio, il 1982, grande penalista cosentino, servendosi dell’alleanza con i cutoliani.
Oggi vive in una grande città, qualcuno dice all’estero, come se non fosse stato il terribile killer che tutti conoscono e l’uomo che teneva sotto usura centinaia di persone.
Libero. Senza più peccati. Senza nessun rischio. Come un onesto lavoratore giunto alla pensione. Un’altra tragicommedia dì questa Italia dei giorni nostri.
*giornalista
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