COSENZA Nella città dei bruzi scorrono fiumi di droga. Le numerose inchieste concluse in questi ultimi anni hanno permesso di smantellare gruppi dediti allo spaccio di sostanze stupefacenti. Il consumo di droghe pesanti e leggere è costante come l’inquinamento del tessuto sociale: tra la fine degli anni ’70 e il decennio successivo, a Cosenza, è l’eroina la droga preferita dagli assuntori. «Sulle strade decine e decine di morti per overdose», una intera generazione decimata dalla tossicodipendenza. La cocaina, invece, veniva considerata roba da ricchi. E’ il clan Pino-Sena ad introdurre la polvere bianca nel 1980, ma il tentativo non sortisce gli effetti sperati. Il traffico di stupefacenti diventa un business ufficiale del crimine organizzato cosentino solo nel nuovo millennio. Prima, infatti, l’attività illecita era prettamente “clandestina” e «retaggio anche della mentalità dei vecchi padrini come Luigi Palermo o Franco Perna», assolutamente contrari allo spaccio dei narcotici. Anche Franco Pino, oggi pentito, si è sempre tenuto alla larga da questo mercato: «Non ho mai trafficato in stupefacenti io».
Il distacco palesato e mai nascosto dal mercato della droga dei boss della mala cosentina, non ha mai, di fatto, impedito agli affiliati di spacciare indisturbati. Nessuno è riuscito a convincere gli uomini dei vari gruppi a desistere dal vendere stupefacenti. In buona sostanza, chi occupava una posizione verticistica, sapeva e non diceva nulla. Sono molteplici i casi di spacciatori diventati assuntori e con il tempo evidentemente dipendenti dalla droga. Una condizione che ha reso, in alcune occasioni, precario l’equilibrio all’interno di un clan. «Alfredo Andretti, Michele Lorenzo e Demetrio Amendola sono stati vittime di epurazioni interne ai rispettivi gruppi di appartenenza».
La droga diventa il vero core business del crimine cosentino negli anni 2000, con la nascita del “Sistema” e dopo il patto stilato tra i gruppi criminali operanti a Cosenza e nell’hinterland bruzio. Il nuovo millennio viene inaugurato dalla pax sancita tra le due organizzazioni e la conseguente ridistribuzione dei compiti: l’eroina agli “Zingari” e la bianca (la cocaina) agli “Italiani”, «con quest’ultimi, titolari del commercio più redditizio, che si impegnano a versare una quota dei loro profitti agli alleati». Cambiano le priorità delle cosche e di conseguenza anche le regole interne e l’organizzazione. Non sono ammesse intromissioni esterne e se qualcuno osa ritagliarsi uno spazio autonomo nel mercato cittadino, rischia la vita. Come accaduto a Pietro Le Piane e Giuseppe Giugliano, con quest’ultimo ucciso all’interno del suo negozio di generi alimentari in piazza Valdesi, nel cuore del centro storico di Cosenza.
Le tensioni aumentano, le intromissioni diventano incontrollabili e la sete di denaro spariglia le carte in tavola e trasforma il patto di non belligeranza – tra Italiani e Zingari – in carta straccia. Gli investigatori individuano il punto di non ritorno e segnano in rosso una data: novembre del 2000. «Una squadra di killer degli “Zingari”, tende un agguato mortale ad Aldo Benito Chiodo, il contabile dei confederati in quota Perna-Cicero». La vittima è considerata anche uno garante del patto stipulato con gli “Zingari” e la sua morte pone fine, di fatto, alla fragilissima alleanza. L’agguato mortale poi passato alle cronache come la Strage di Via Popilia costa la vita anche a Francesco Tucci mentre rimane ferito ad una mano Mario Trinni. Del duplice omicidio, ha parlato – in un lungo verbale – anche il pentito Nicola Acri. La Strage di Via Popilia, oltre alla fine della pax segna anche l’ingresso in scena dei kalashnikov, che dal quel momento diventeranno il «tratto distintivo dell’azionismo di matrice nomade».
E’ il racket, l’attività criminale le cui origini (anche a Cosenza), affonda le radici nel tempo e che permette di garantire alle cosche non solo facili introiti ma l’esercizio del potere e il vincolo imposto agli imprenditori sottomessi e “costretti” a pagare una tassa non dovuta. L’estorsione ai commercianti cosentini era praticata già negli ’70 da alcuni esponenti delle bande di quartiere non ancora diventate clan di malavita. Il pizzo, in quegli anni non era regolato da rigide norme interne, ma veniva richiesto a discrezione del picciotto di turno chiamato a chiedere danari agli imprenditori. Oggi, quell’attività occasionale è diventata strutturale. E’ Antonio Sena, «il primo ad operare un salto di qualità con la pubblicità alla sua radio imposta a diversi commercianti e imprenditori di Cosenza e hinterland che fanno di lui l’antesignano delle estorsioni legalizzate». Ma è la morte di Luigi Palermo “U Zorru” a segnare una svolta nell’imposizione del pizzo. «Il racket diventa una delle principali fonti di guadagno del clan Perna-Pranno, anche a causa della ritirata strategica del gruppo Pino-Sena a San Lucido». Le due fazioni in lotta non hanno scelta, devono investire per procurarsi le armi necessarie a vincere una battaglia che richiede, inoltre, l’arruolamento di numerosi soldati. I costi diventano esorbitanti, le perdite minacciano le casse dei clan che dopo un’attenta analisi scelgono la via dell’armistizio sotterrando l’ascia di guerra. Il denaro vince sulle armi, la sete di potere sulla necessità di far fuori il nemico a tutti i costi. Le estorsioni vengono, dunque, esercitate in maniera capillare sui commercianti della città con un guadagno di circa cento milioni mensili. Non basta. Le cosche capiscono che l’attività si può estendere. E gli occhi si posano sui grossi lavori pubblici della città e del suo hinterland. Il business vale svariati miliardi di lire, ma la prepotenza criminale non è sufficiente, pronunciare il nome “pesante” di un boss nemmeno. Per arrivare alle grandi opere servono amicizie e contatti negli ambienti che contano: politici e professionisti in grado di indirizzare l’azione dell’organizzazione.
«La mafia cosentina assume così una dimensione più imprenditoriale, in grado di dialogare con i grossi industriali − quasi sempre del nord – vincitori degli appalti, stringendo con loro accordi garantire la tranquillità all’impresa nell’esecuzione dei lavori». I malavitosi abbandonano coppola e lupara e indossano giacca e cravatta. «Contestualmente si affina il sistema di pagamento del pizzo non più circoscritto alla riscossione di denaro contante, bensì attraverso l’imposizione di affidare le forniture di calcestruzzo, inerti e bitume a imprenditori di Cosenza a volte solo conniventi, ma spesso anche coinvolti in modo diretto nel sodalizio mafioso». Tanti soldi da ripulire, convincono gli affiliati ai clan a diventare imprenditori: titolari di ditte e attività commerciali che servono anche a “giustificare” l’impennata improvvisa dei redditi. La svolta affaristica, infatti, ha consentito loro di arricchirsi mettendo le mani su appalti come la realizzazione della superstrada in Sila, il metanodotto di Tarsia e quello Lamezia-Cosenza, per arrivare addirittura all’estero, in Romania, nell’affare dell’aeroporto di Bucarest. Ad interrompere l’era d’oro della mala sarà . A mete degli anni ’90 – l’operazione giudiziaria “Garden”. Gli arresti e le indagini stoppano per qualche tempo le attività, ma l’arrivo del nuovo millennio segna l’inizio di una nuova era e la ripresa del racket. Questa volta però a finire nella rete dei gruppi criminali non sono gli incassi degli imprenditori, ma i lavori di ammodernamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, «una torta alla cui spartizione partecipano tutti i gruppi criminali: dagli “italiani” di Ettore Lanzino e Domenico Cicero, fino agli “Zingari” di Francesco Bevilacqua e quelli cassanesi di Francesco Abbruzzese alias “Dentuzzo”, passando per il potente gruppo di Paterno Calabro, alleato degli “Italiani” guidato da Carmelo Chirillo e dai suoi fratelli Romano e Francesco». L’interesse per gli appalti, tuttavia, non ha frenato le continue e minacciose richieste estorsive perpetrate costantemente ai danni dei commercianti piegati al “pizzo” da oltre trent’anni.
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