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l’iniziativa

«Giusto ricordare Alvaro, ma anche Strati raccontò al mondo la Calabria»

Ferma restando l’importanza di intitolare un non-luogo, com’è un aeroporto, ad un illustre e famoso esponente dell’identità culturale di un territorio, e ferma restando l’importanza di Corrado Alv…

Pubblicato il: 07/11/2022 – 15:59
di Palma Comandè
«Giusto ricordare Alvaro, ma anche Strati raccontò al mondo la Calabria»

Ferma restando l’importanza di intitolare un non-luogo, com’è un aeroporto, ad un illustre e famoso esponente dell’identità culturale di un territorio, e ferma restando l’importanza di Corrado Alvaro nel panorama letterario e intellettuale nazionale e internazionale, occorre precisare che egli non è lo scrittore calabrese che «meglio di ogni altro ha saputo raccontare e rappresentare la Calabria e i calabresi», così come scritto nella petizione circa l’intitolazione a lui dello scalo lametino; né è «…l’unico degli scrittori calabresi del Novecento ad essere entrato nella dimensione della classicità», così come affermato dal Presidente della Fondazione a lui intitolata.
Se, infatti, si conoscesse bene la letteratura che ci riguarda si saprebbe che al Realismo Sociale di Alvaro, Padula, Jovine, Repaci, Levi e altri importanti rappresentanti della letteratura, è seguito il Realismo Umanistico inaugurato da Saverio Strati, che, pur sottolineando le iniquità e le vessazioni della classe egemone sulle categorie subalterne, ha fatto un fondamentale passo in avanti: ha trasformato le categorie sociali in uomini, cogliendone, coi bisogni, i sentimenti e il pensiero. Così dimostrando in letteratura quanto affermato da Hegel in una delle sue ultime lezioni sulla filosofia del diritto, ossia che sono i poveri a fare la storia. Cosa non da poco, se si pensa che fino a Strati lo sguardo gettato dagli scrittori sugli umili, a partire da Verga, era stato di tipo pietistico e paternalistico, pur con le importanti denunce sociali del Realismo novecentesco.
Il fondamentale passo successivo, inaugurato appunto da Strati, fu di evidenziare che le condizioni di miseria denunciate non erano passivamente subite dalle classi subalterne, ossia dagli umili, ma attivamente tollerate giacché loro, gli umili, smentendo il pensiero crociano secondo il quale il popolo è incapace di pensiero autonomo, non solo nutrivano sentimenti di ripulsa per il dispotismo padronale che li teneva in miseria e li voleva soccombenti e passivi, ma sviluppavano pensieri di diritti e giustizia sociale. Pensieri che nel tempo li portarono a sottrarsi al giogo con l’emigrazione, l’unica via che avevano per riappropriarsi della vita e della dignità. Sì, della dignità, quell’elemento profondamente costitutivo dell’essere umano, che della miseria e delle vessazioni non faceva percepire solo le ferite materiali e morali, ma anche, se non soprattutto, quelle etiche, quelle cioè di chi si interroga in modo speculativo sull’agire umano e ne pondera i risultati (cosa che solo le menti attive e di fatto libere sanno fare).
È così che con Strati le sterminate masse di umili da oggetti diventano soggetti della Storia, esattamente come gli umili di Tolstoj, Turgheniev, Cechov e altri grandi della letteratura russa che hanno saputo cogliere la realtà che li riguardava con occhio lucido, privo di qualsiasi condizionamento culturale o sociale. Di ciò se ne accorsero, nel 1957 col romanzo La Teda, Vittorini in Italia, che salutò Saverio Strati come scrittore rivoluzionario, e il grande critico James Finn in America, che lo salutò allo stesso modo dalle colonne del New York Times. Una rivoluzione letteraria che in breve fu apprezzata nel resto del mondo, perfino nel lontano Oriente dove, per comprendere bene la classicità conservata nel Meridione d’Italia, si leggevano e si continuano a leggere le opere di Strati. Opere che, nell’arco dell’intero Novecento, hanno seguito il cammino evolutivo della nostra gente, smentendone il passivo impantanamento nella rassegnazione e nel dolore, e invece mostrando l’attivismo e la proiezione nel futuro con le varie generazioni impegnate ciascuna ad affermarsi nella società di cui era parte. E così, dal bracciante, o dal contadino, costretto a lasciare la propria terra per guadagnarsi pane e libertà in terre straniere, abbiamo visto affermarsi figli che hanno acquisito competenze specifiche e con esse una precisa rispettabile identità. E poi da essi ancora figli che hanno studiato, conquistandosi un preciso rispettabile posto nella loro società e ad essa donando il proprio importante contributo. Fino ad oggi, quest’oggi nel quale noi figli di questa terra non più arretrata ma neppure evoluta, ci affanniamo a stimolare uno sviluppo che comunque arranca, ma ci compiaciamo e ci consoliamo di sapere che molti dei grandi cervelli che operano in giro per il mondo sono nostri conterranei, figli, nipoti e pronipoti di quei poveri analfabeti, emigrati per speranza e disperazione, che evidentemente hanno trovato dentro sé le risorse per schivare il pantano, così declamato da certa letteratura sociale, di una nostalgia in realtà controllata e sottomessa da menti di fatto libere e speculative che hanno saputo inserirsi nel mondo che li accoglieva, cogliendone le opportunità e crescendo con esso.
L’anima di un territorio la si penetra profondamente solo quando si è parte costitutiva di esso, come lo è stato Saverio Strati che fino a vent’anni ha vissuto e lavorato fianco a fianco con gli umili condividendone bisogni, ansie, rabbie e desideri, e di questi sentendone addosso tutta la forza. La sua opera, che abbracciando l’arco temporale di un intero secolo, il Novecento e anche oltre, con linguaggio asciutto privo di tentazioni retoriche o inutilmente liriche perché perfettamente aderente al realismo delle storie e coevo ad esse, racconta delle masse di umili il cammino evolutivo, quello realisticamente giunto fino a noi, che ne siamo il prodotto. I vari importanti premi e riconoscimenti ricevuti negli anni, e culminati nel prestigioso Campiello ricevuto nel 1977 con Il Selvaggio di Santa Venere, nonché le recensioni nei più importanti giornali del mondo e le traduzioni in molte lingue sono la prova inconfutabile della perfetta adesione fra l’opera dello scrittore e i reali bisogni di speculativa conoscenza da parte dei lettori.
Un popolo, una terra, una cultura si raccontano bene, o meglio compiutamente, solo quando si sanno cogliere tutte le componenti costitutive della loro identità, primo fra tutti quell’umanesimo che è sempre il motore di ogni pensiero, di ogni azione, di ogni cambiamento. Solo fuori da condizionamenti vari si fa un buon servizio all’informazione, e uno ancor più importante si fa a quella crescita sociale che eziologicamente si concretizza nella conoscenza profonda e nell’onestà comunicativa.
Tutto quanto affermato fin ora non vuole delegittimare l’intenzione, in sé giusta, di intitolare a un grande rappresentante della nostra letteratura l’aeroporto lametino (un non-luogo a cui, come giustamente affermato dai promotori dell’idea, è importante dare un’identità altamente rappresentativa della cultura non solo regionale, ma nazionale e internazionale), vuole solo richiamare l’attenzione sulla necessità di una conoscenza approfondita degli elementi che si vanno ad affermare, in ossequio a una verità storica e intellettuale che è patrimonio di ciascuno e che non deve essere inficiata da pantani retorico-culturali o condizionamenti vari, giacché si ostacolerebbe proprio ciò che si vorrebbe promuovere: una sana e onesta crescita socio-culturale.

*scrittrice, nipote di Saverio Strati

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