LOCRI Un omicidio commesso «al fine di raggiungere plurimi obiettivi», determinato da un «profondo sentimento di gelosia», «rancore» e «frutto di un’azione oggetto di puntuale pianificazione». È il contenuto delle motivazioni della sentenza per l’omicidio di Vincenzo Cordì, il 42enne di Gioiosa Jonica trovato carbonizzato all’interno della propria autovettura il 13 novembre 2019, in località Scialata del comune di San Giovanni di Gerace. Per la sua morte furono condannati nel giugno 2022, dai giudici della Corte di Assise di Locri (presidente Amelia Monteleone, giudice a latere Maria Grazia Galati), all’ergastolo l’ex compagna Susanna Brescia e il suo presunto amante Giuseppe Menniti, e a 23 anni di reclusione Francesco Sfara, figlio della donna avuto da una precedente relazione. Fu invece assolto (per non aver commesso il fatto) l’altro figlio della donna, Giuseppe Sfara. Nelle motivazioni della sentenza i giudici ripercorrono una vicenda fatta di intrecci familiari complessi che culminò con l’uccisione di Cordì, un delitto che l’allora procuratore di Locri Luigi D’Alessio definì «uno più efferati degli ultimi anni nella Locride».
Vincenzo Cordì, che era scomparso due giorni prima del ritrovamento del suo cadavere carbonizzato, – secondo le ricostruzioni degli inquirenti che hanno indagato per tre mesi – è morto dopo essere stato tramortito e dato alle fiamme ancora vivo all’interno della sua Fiat 16 la notte dell’11 novembre 2019. Da subito era stata esclusa l’ipotesi di suicidio, nonostante la compagna sostenesse proprio questa tesi. Il giorno seguente l’omicidio, Susanna Brescia aveva fatto una denuncia di scomparsa: secondo gli investigatori una messa in scena con il tentativo di depistare le indagini. La donna sosteneva che Cordì fosse molto depresso e che facesse uso di antidepressivi. «Totalmente falso», aveva affermato in aula la pm Marzia Currao, titolare dell’indagine, che aveva tracciato un quadro molto chiaro sottolineando che «Susanna Brescia era una donna gelosa» e «non era fedele». Secondo l’accusa, il movente dell’omicidio è da ricercare nei difficili rapporti che Cordì intratteneva con la donna dalla quale aveva avuto due gemellini. Per Giuseppe Menniti e Francesco Sfara, invece, il movente è da ricercare nella «volontà di aiutare l’imputata ad annientare il compagno». Susanna Brescia, secondo l’accusa, intratteneva da diverso tempo una relazione extraconiugale con Giuseppe Menniti, benché dimostrasse gelosia nei confronti del compagno. I testimoni ascoltati in aula avevano parlato di «continue telefonate anche mentre Vincenzo si trovava sul luogo di lavoro». Secondo quanto emerso, l’uomo nel 2016 era stato ricoverato per intossicazione da barbiturici che avrebbe assunto senza rendersene conto: secondo l’accusa è stato un primo tentativo di avvelenamento, «un tentato omicidio», aveva chiarito Currao.
«È di palpabile evidenza che la Brescia abbia maturato una forte avversione nei confronti del Cordì, già manifestata nel 2016 con il tentativo di avvelenamento, ma riaccentuatasi nell’ultimo periodo in conseguenza di molteplici fattori: la gelosia verso la nuova relazione sentimentale del compagno, il timore di perdere i figli (in conseguenza di una separazione), la minaccia di riapertura del “caso” con riferimento per l’appunto all’attività di indagine per il tentato omicidio e, da ultimo, il tentativo di riavvicinamento del Cordì non gradito avendo la Brescia intrapreso una nuova relazione sentimentale». Così i giudici della Corte di assise di Locri cristallizzano nelle motivazioni della sentenza il comportamento e le conseguenti azioni di Susanna Brescia, una donna – scrivono – dal «carattere possessivo-patologico». Ed è proprio la gelosia a tornare più e più volte nella ricostruzione di un delitto che secondo i giudici è «frutto di un’azione oggetto di puntuale pianificazione e rispetto a essa è configurabile l’aggravante della premeditazione». I giudici sottolineano inoltre che «a nulla vale affermare – come pure hanno fatto i difensori durante le loro arringhe – che l’omicidio fosse stato organizzato solo in modo rudimentale e che non vi fosse stata alcuna programmazione ma che, al contrario, fosse improvvisata, perché altri e più pregnanti elementi inducono ad affermare il contrario». Il luogo scelto per il delitto, la modalità con cui è avvenuto, le azioni intraprese dopo dagli indagati. Tutti elementi che secondo i giudici, in sostanza, sono «chiari indici di quanto fosse radicato il proposito omicidiario». «Il gruppo – rilevano ancora i giudici della Corte d’assise di Locri – ha agito in modo coeso, solidale, ben organizzato al fine di porre fine e distruggere la vita di Cordì Vincenzo». Ma a spiccare nelle indagini e nel corso del dibattimento è stata la figura di Susanna Brescia, decritta dagli investigatori come una donna gelosa e infedele, ma anche – si legge nelle motivazioni della sentenza – dal «carattere particolarmente persuasivo» con un «forte ascendente nei confronti delle persone a lei vicine, in particolare sui figli». Secondo i giudici, Giuseppe Menniti e Francesco Sfara nell’ambito del delitto erano «spinti sia da un interesse personale e diretto sia nell’ottica di supportare la volontà della Brescia, rispettivamente compagna e madre, liberando quest’ultima da ogni preoccupazione e angoscia».
Particolarmente inquietante e, secondo gli inquirenti e i giudici del Tribunale di Locri, rilevante in tutta la vicenda è il tentato omicidio di cui si sarebbe resa responsabile Susanna Brescia nel 2016 ai danni di Vincenzo Cordì. Il tentativo, secondo la ricostruzione fornita dall’accusa, si sarebbe consumato mediante «somministrazione di farmaci, contenenti benzodiazepine, nel latte e caffè bevuto dalla persona offesa (Cordì ndr) durante la colazione, sostanze che provocarono nella vittima uno stato di malessere, di gravità tale da aver determinato la perdita del controllo del mezzo mentre si recava sul posto di lavoro e l’immediato ricovero ospedaliero». Cordì, che si era sentito male alla guida dopo aver consumato la colazione preparata dalla compagna, era andato a sbattere con la propria auto contro una palma. Dai messaggi intercorsi tra Vincenzo Cordì e Susanna Brescia, secondo i giudici, si evince che l’uomo per «paura di perdere la compagna, paura di subire altre aggressioni e, soprattutto, paura di perdere i figli», aveva in un primo momento «ritenuto di preservare la Brescia evitando che qualsivoglia sospetto potesse cadere sulla sua persona», ma – si legge nelle motivazioni della sentenza – «nel 2019 non solo ha acquisito consapevolezza che quanto occorsogli nel 2016 era stato causato dalla compagna ma è apparso anche determinato nel tornare a riaprire “il caso” per tenere con sé i gemellini, avendo perso fiducia nei suoi confronti».
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