I giornali si sono premurati di informarci che, dal 15 novembre di quest’anno, secondo stime ONU, la popolazione umana della Terra ha superato gli 8 miliardi di individui. La notizia è stata archiviata dai media senza colpo ferire, per passare subito ad armi di distrazioni di massa più efficaci: politica, guerra, cronaca nera, calcio etc. Mentre sarebbe stata buona cosa cogliere l’occasione per riprendere a discutere del tema demografico, vero desaparecido delle scienze sociali. L’Homo sapiens ha fatto la sua comparsa sulla Terra 200/300 mila anni or sono. Dopo la cosiddetta rivoluzione cognitiva (70 mila anni fa), che attiene al linguaggio, e dopo quella neolitica (12 mila cinquecento anni fa), che riguarda l’agricoltura e la domesticazione del bestiame, la popolazione umana è lentamente cresciuta. Sino a che, nel 1804, abbiamo raggiunto il traguardo del miliardo di individui. Poi, in poco più di un secolo (1927), siamo rapidamente raddoppiati: 2 miliardi. L’esplosione demografica è coincisa con le grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, che hanno consentito un maggiore e migliore sostentamento alimentare delle popolazioni e la cura di molte malattie. Nel 1960 (dopo meno di mezzo secolo) siamo divenuti 3 miliardi. Da allora cresciamo al ritmo esponenziale di un miliardo di individui ogni 13 anni. Sino ad arrivare, nel 2011 a 7 miliardi: sono bastati, infine, solo undici anni per raggiungere gli odierni 8 miliardi di umani! L’uomo è l’unico mammifero capace di realizzare una crescita numerica così vertiginosa!
Sono passati più di cinquant’anni (era il 1968) da quando l’economista, manager ed imprenditore italiano Aurelio Peccei, insieme ad altri scienziati e premi Nobel, fondò il “Club di Roma”, che intendeva studiare i cambiamenti globali sul Pianeta in rapporto allo sviluppo delle attività umane. E – interessante coincidenza – ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario dell’uscita, nel 1972, del “Rapporto sui limiti dello sviluppo” redatto dal MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) proprio su incarico del Club di Roma. Quel rapporto prevedeva, in sintesi, che la crescita economica e demografica dell’umanità si sarebbe presto scontrata con la finitezza delle risorse naturali (petrolio in primis). Il superamento della crisi petrolifera degli anni Settanta – crisi che pure aveva dato grande fama al rapporto – provocò una sorta di ostracismo da parte degli economisti neo-liberisti e dei media, verso le tesi del Club di Roma. Tesi che invece, anche alla luce di quanto sta accadendo in questi anni di crisi economiche ripetute, pandemie, cambiamenti climatici, migrazioni e guerre, restano più che mai attuali. Il Rapporto sui limiti dello sviluppo ci interroga, ancor oggi, su quanto possa davvero ritenersi compatibile una crescita demografica così rapida e continua con la finitezza delle risorse della Terra, intendendo per risorse anche il suolo, l’acqua, l’aria, il clima, l’effettiva qualità di vita delle persone. Secondo stime dell’ONU, nel 2030 saremo 8,5 miliardi e nel 2050 9,7 miliardi. La popolazione mondiale sarà sempre più composta di anziani e sempre più in movimento. Inoltre, poiché quella che gli economisti chiamano enfaticamente “crescita” si basa sui consumi, è evidente che per aversi crescita continua sarà necessario consumare sempre di più e quindi produrre sempre di più, con ulteriore depauperamento delle risorse naturali. Risorse che però fanno i conti con quella che gli ecologi definiscono “carringcapacity” ossia capacità di carico delle attività umane sulla Terra, divenuta ormai insostenibile. Tant’è che la parola “sostenibilità” e l’aggettivo “sostenibile” sono entrati a pieno titolo nel lessico comune degli economisti e dei programmi governativi. Aurelio Peccei ci lasciò un libro bellissimo, dal titolo “Cento pagine per l’avvenire” (Mondadori 1981), nel quale egli sosteneva che non invertendo, sin da allora, l’illusione che la specie umana possa crescere (demograficamente ed economicamente) all’infinito (tesi in auge a tutt’oggi, in base all’idea che scienza e tecnologia sopperiranno alla carenza delle risorse naturali), avremmo causato seri danni alla Terra ed a noi stessi. Nel libro, Peccei avvertiva: “Non occorre esser profeti per immaginare che [interverranno] crisi complesse e violente in cui saranno impiegate tutte le armi, ivi comprese quelle ultramoderne che le potenze industriali hanno cura di fornire ai paesi poveri per farsi concorrenza tra loro; e infine che queste crisi si propagheranno in un baleno da una regione all’altra. Uno stato di crisi endemica sarà d’altra parte alimentato negli anni a venire dalla più grande migrazione della storia […] ondate sempre maggiori di gente [abbandoneranno] le zone rurali povere alla ricerca di un’esistenza meno miserabile nelle città apparentemente più attraenti, che però finiranno per essere ancora più povere ed inospitali.” Si trattò di una previsione quasi distopica (la distopia è un’utopia negativa), che impattò violentemente con la vulgata neo-liberista e scientista dello “spirito umano che vince sulla natura e sulla penuria di risorse”. Oggi, invece, quell’avvertimento è divenuto realistico e crucciale. “Dobbiamo necessariamente riflettere su noi stessi – scriveva Peccei nel suo libro – sulla nostra condizione, sul nostro destino, su quello che dobbiamo fare. Le nostre capacità tecniche ci hanno forse posto su un piedistallo più alto? Siamo per caso una specie di geni, destinati in fin dei conti a trionfare su tutto? O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri, magari mostri geniali, che finiranno per restar vittime del loro stesso malsano operare?”.
* Avvocato e scrittore
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