Per il pubblico ministero della Dda di Bologna Beatrice Ronchi Brescello è il «simbolo concretizzato della ’ndrangheta in Emilia-Romagna». Il suo capo, Francesco Grande Aracri, ne è «il vertice massimo e ne detta le strategie». Oggi il Post dedica un approfondimento alla storia della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, a partire dal processo “Grimilde”, che dalla presenza mafiosa a Brescello prende origine e già nel nome (Grimilde è la strega di Biancaneve che non riusciva a guardarsi allo specchio) accenna alla volontà di negare il fenomeno ‘ndranghetistico nell’area.
«L’arrivo della ’ndrangheta in queste zone – scrive il Post – risale secondo gli storici della criminalità organizzata al 1982, quando un boss di Cutro, Antonio Dragone, venne inviato in soggiorno obbligato a Montecavolo, una frazione di Quattro Castella, a 30 km da Brescello. Il soggiorno obbligato era un provvedimento giudiziario molto utilizzato allora nei confronti soprattutto dei capimafia (fu abolito nel 1995). Lo scopo era quello di troncare il rapporto tra la persona inviata al soggiorno obbligato e il suo clan, nel territorio d’origine. In realtà i boss mafiosi continuarono a gestire le loro attività e anzi ampliarono la sfera d’influenza anche ai territori in cui erano stati inviati. Avvenne soprattutto in Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. Dragone fece arrivare in alcuni comuni della Bassa i suoi familiari e un gruppo dei suoi uomini più fidati, con le rispettive famiglie. Non solo, decine di giovani calabresi che si erano trasferiti in Emilia-Romagna si misero a disposizione del boss: in breve tempo nella zona della Bassa Reggiana venne creato un “locale”, cioè una filiale del clan ’ndranghetista che opera lontano dal luogo d’origine, in questo caso Cutro.
Tra arresti e sostituzioni al vertice della ‘ndrina, i Dragone comandavano a Reggio Emilia. E non solo: Modena e Sassuolo erano territorio dei Falleti e dei Fazzari, Maranello dei Formigine, Nonantola degli Alvaro. La provincia di Parma era il territorio di Emilio Rossi, originario di Crotone. Il killer più utilizzato dal clan Dragone in Emilia-Romagna era Paolo Bellini che, pentito, ha confessato 13 omicidi per conto della ’ndrangheta. Bellini, ex terrorista fascista del gruppo di Avanguardia nazionale, è stato condannato ad aprile all’ergastolo per concorso nella strage alla stazione di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980.
A quei tempi Nicolino Grande Aracri era soltanto uno dei distributori di droga per conto dei Dragone. Anche lui, che sarebbe diventato uno dei boss più importanti della ‘ndrangheta, era arrivato da Cutro. Ma era ambizioso. Un altro collaboratore di giustizia, Vittorino Foschi, raccontò che Nicolino Grande Aracri disse: «Loro si prendono i soldi e io no. A questo punto mi sono stancato; la famiglia me la alzo io, non do più conto ai Dragone». Antonio Dragone venne ucciso nel 2004, a Crotone, appena uscito dal carcere. I Grande Aracri avevano vinto la guerra. E dominavano in Emilia Romagna. Ma senza esporsi troppo. I Grande Aracri agirono in maniera discreta, cercando sempre di mantenere un profilo basso, limitando il più possibile le azioni violente. Già nel 1993 il comandante della Guardia di Finanza di Bologna diceva alla commissione parlamentare antimafia: «Gli appartenenti a queste organizzazioni si sono posti, rispetto all’ambiente, con molta delicatezza e grande tatto; in tal modo essi si sono inseriti gradualmente nell’ambiente. (…) hanno cominciato a comportarsi come dei tranquilli operatori economici della zona, seguendo una strategia di mimetizzazione e di grande tatto nell’aggredire l’ambiente».
«Fu l’inchiesta Edilpiovra all’inizio degli anni Duemila – ricorda il Post – a far emergere il potere dei Grande Aracri. L’indagine riguardò estorsioni a gestori di esercizi pubblici e privati e fatturazioni seriali per operazioni inesistenti nei confronti di imprenditori, soprattutto del settore edile, destinate a occultare il denaro che il gruppo chiedeva alle vittime, anche con la minaccia di ritorsioni e azioni incendiarie. Secondo le indagini dei carabinieri Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, sovrintendeva e dirigeva le attività del gruppo nel reggiano».
Francesco Grande Aracri venne condannato al termine del processo Edilpiovra a tre anni e sei mesi per associazione di stampo mafioso. Per lui non cambiò nulla. Come ha detto ancora la pm Ronchi del processo Grimilde: «Nella vita di Grande Aracri non c’è stato un prima e un dopo. Successivamente alle contestazioni a lui mosse in “Edilpiovra”, che si chiudono nel 2003, lui ha proseguito con le stesse condotte, senza fare alcun gesto di discontinuità».
«Chi ha delle mafie l’immagine di organizzazioni solo violente o assassine non riesce a comprendere come queste persone che si comportano in maniera così normale possano essere considerate mafiose. L’assenza dei reati tipicamente mafiosi, come l’omicidio, ha permesso agli ’ndranghetisti di costruirsi una rappresentazione lontana da quella a essi classicamente attribuita». Sono parole dello storico delle mafie Enzo Ciconte. E spiegano bene perché i clan cutresi abbiano prosperato così a lungo.
Ha detto Beatrice Ronchi sempre nella sua requisitoria: «Non è oggetto del processo verificare se Brescello ha capito che non ci si difende dalla mafia negandola. Speriamo almeno che Grimilde abbia aiutato ad aprire qualche occhio in più».
Nel 2016, quando il comune di Brescello fu sciolto per infiltrazioni mafiose venne sottolineato il clima «superficiale, permeato da una forte fragilità culturale, rispetto alla criminalità organizzata e ai suoi più pericolosi esponenti». Tra i condannati – a 15 anni e quattro mesi – nel filone del processo condotto con il rito abbreviato c’è anche il politico Giuseppe Caruso, personaggio chiave del processo. Ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, eletto con Fratelli d’Italia, è stato condannato perché, da dirigente dell’agenzia delle Dogane, era secondo i giudici il tramite tra i Grande Aracri e il mondo imprenditoriale, finanziario e politico della regione.
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