Ci sono romanzi che un calabrese non può dire di non aver letto. Se davvero gli interessa la Calabria. Ci sono storie che un calabrese non può dire di non conoscere. Ci ho provato, qualche anno fa, con il mio “Lettere meridiane” a proporre ai calabresi cento letture essenziali. E tuttavia restiamo, noi calabresi, fra gli altri italiani, quelli che più “ignorano” la terra dove abitano. I libri sono un buon antidoto a questa sorta di amnesia territoriale, che produce, per altro, disaffezione verso i luoghi e sottovalutazione del loro valore. Tanto più che oggi i libri possono essere letti con ogni comodità, anche tecnologica. Ma la lettura di un libro non deve essere ritenuta – come comunemente si crede – un sacrificio del proprio tempo, non deve essere vista come un’imposizione. La lettura può e deve produrre gioia, soddisfazione, emozione. Ecco perché, se proprio non ce la facciamo a leggere un saggio, possiamo optare, invece, per un romanzo, che accenda la nostra fantasia, affascini, seduca, e nello stesso tempo racconti una di quelle storie che altrimenti ignoreremmo. La casa editrice Rubbettino ha recentemente riedito, nella collana “La nave dei pini”, la nuova edizione di uno di questi romanzi, fra i più importanti del ‘900, “Emigranti” di Francesco Perri con una prefazione di Mimmo Gangemi. È l’occasione per rifarsi del tempo perduto ed immergersi – a dispetto del titolo infelice e non consono al contenuto del libro. molto più vasto e suggestivo – in una grande storia corale che ricostruisce un’epopea, un ethos, una dimensione storica della nostra terra.
Benché meno noto al grande pubblico di Alvaro, Perri, anch’egli di origini calabresi (nacque a Careri nel 1885 e morì a Pavia nel 1974) è stato uno dei maggiori narratori italiani del ‘900. Scrisse vari romanzi e racconti, solo in parte di ispirazione calabrese, pubblicati da editori di prima grandezza. Ricordiamo “I conquistatori” (Libreria Politica 1925, riedito da Garzanti nel 1945), “Il discepolo Ignoto” (Garzanti 1940), “Storia del Lupo Kola” (Società Editrice Internazionale 1960, riedito da Rubbettino nel 2008), “Racconti d’Aspromonte” (SEI 1940, riedito da Quale Cultura Jaca-Book nel 2001), Capitan Bavastro (Garzanti 1940, riedito da Rubbettino-Ilisso nel 2006), “Fra Diavolo” (Fussi 1948, riedito da Rubbettino-Ilisso nel 2006). E tuttavia Perri rimase molto legato alla sua terra, l’Aspromonte orientale, e forse più di chiunque altro seppe capire l’anima riposta e segreta della Calabria e dei Calabresi.
L’opera di ambientazione calabrese più importante di Perri è, per l’appunto, “Emigranti”. Non fatevi scoraggiare da un titolo che pare preannunciare solo le sofferenze di una condizione che, come calabresi, tendiamo a rimuovere. Perri lo pubblicò nel 1928 per Lerici e ricevette subito il premio dell’Accademia Mondadori. Poiché rivelava le miserevoli condizioni di vita delle comunità pastorali e contadine del sud Italia, il libro venne messo all’indice dal fascismo, che non gradiva immagini disfattiste contrarie alla sua propaganda. Ma quel che risulta strano è che anche da sinistra “Emigranti” venne duramente attaccato. Antonio Gramsci in persona, infatti, rimproverò a Perri di aver dato risalto inopportuno alla questione demaniale, ossia alla rivendicazione da parte dei contadini poveri delle terre demaniali che nei secoli precedenti erano state usurpate dai latifondisti. La questione si era effettivamente riaccesa nel primo dopoguerra, come dimostra anche un romanzo, più tardo, di Mario La Cava, “I fatti di Casignana”. Gramsci considerava anacronistica la riproposizione della questione demaniale e annetteva il combattentismo degli anni tra il 1919 ed il 1920, invece, al movimento operaio, in chiave, ovviamente, politica e rivoluzionaria. Ne venne fuori un vero e proprio ostracismo intellettuale nei confronti di Perri.
La lettura di “Emigranti” è una pura immersione nella grande letteratura. Ci troviamo dinanzi ad un affresco grandioso del mondo contadino e pastorale dell’Aspromonte; e, in quanto “mondo”, non solo degli uomini, delle donne e delle loro quotidiane tribolazioni (come accade in gran parte degli altri narratori calabresi), ma anche della natura e dei paesaggi che li circondano (fatto, questo, alquanto inusuale per la letteratura calabrese).
Anche in “Emigranti”, come in tutte le altre storie della letteratura del Novecento calabrese, un senso di morte aleggia sulla vicenda narrata: malattie, omicidi, indigenza. Sembra che non vi sia redenzione per queste piccole comunità umane sorprese da cambiamenti epocali e dalla crisi sociale ed economica seguita all’Unità d’Italia. Un mondo appartato e lontano, in lento disfacimento, costretto a mandare i suoi figli migliori oltre Atlantico per cercare pane e fortuna.
Anche il protagonista della storia, a un certo punto, è costretto a partire per l’America e dopo alcuni anni torna al paese riabilitato economicamente, ma non anche nel profondo del cuore, diviso tra l’amore e la repulsione per tutto ciò che il suo passato rappresenta. Il rapporto ambivalente tra l’uomo e la sua terra (una costante di quasi tutti i calabresi della diaspora) è così mirabilmente descritto da Perri: «Io quando sono qui vorrei essere in America – dice il protagonista – e quando ero in America tutte le notti sognavo la mia casa. Questa terra bruciata ci perseguita e non ci lascia dormire fino in capo al mondo. Cosa avevo lasciato io qui? (…) Che cosa aveva, dunque, in sé quella terra per conquistare il cuore – si chiede più avanti la voce narrante -, per essere ricordata e rimpianta in ogni angolo del mondo, dove si trovavano errabondi i suoi figli in cerca di lavoro e di pane? Nessuno l’avrebbe saputo dire, se non forse il cuore».
Vi è in “Emigranti” una straordinaria conoscenza dei luoghi ed un profondo amore per l’Aspromonte. Vi è una finissima introspezione psicologica dei personaggi. Vi è un incalzante ritmo narrativo. Ma vi sono anche momenti di pura contemplazione estetica del mondo della natura, che si apre, ad esempio, ai pellegrini che, a notte inoltrata, intraprendono il viaggio a piedi, tra boschi e fiumare, verso il leggendario Santuario mariano di Polsi, celato nel cuore dell’Aspromonte.
Il pellegrinaggio a Polsi è probabilmente la metafora stessa del ritorno, del riaffondare nelle proprie radici. Dopo le partenze per il Nuovo Mondo, gli addii alle persone amate, la sofferenza del distacco dai luoghi aviti, la nostalgia struggente per la patria lontana. È anche la metafora della speranza, per chi è rimasto, di esser finalmente redento, di trovare quella pace che sembra impossibile in una terra da secoli in guerra con sé stessa. A causa delle catastrofi naturali e della povertà cui la storia l’ha condannata forse irrevocabilmente. È il tentativo di sentirsi per qualche ora in comunione, di ritrovare il senso, pur contradditorio, di una comunità che converge, come in raggi concentrici, verso il suo cuore ideale.
E al santuario meriano di Polsi, cuore dell’Aspromonte, si compie il disegno narrativo di “Emigranti”. A Polsi, dove un’umanità fuori dalla Storia si accalca per entrare nella sua storia. Polsi è “il luogo” per antonomasia per la gente d’Aspromonte. Ed è lì che si svolge la festa, che le aspettative di perdono religioso e nello stesso tempo laico della gente si riempiono di senso. Scrive Perri, con una finissima intuizione antropologica: «La festa di Polsi non ha nulla di quel lugubre scenario di altri santuari, dove si radunano i morbi e le deformità di tutta una regione, in cerca di grazia e di salute. Questa somiglia più che altro, a un immenso baccanale religioso, a una festa dionisiaca, dove si va come a una scampagnata, tra i monti, e si mangia, si prega anche un poco, e con fervore, ma soprattutto si danza. Il ballo è la caratteristica più spiccata della solennità. In ogni angolo ove esistono quattro metri quadrati di terra pianeggiante, sotto ogni noce, una zampogna, o una fisarmonica fanno circolo. Intorno si dispongono dei pellegrini, uomini e donne, scelgono un maestro di ballo, uno cioè che guidi la danza, – la quale ha le sue leggi e le sue regole cavalleresche che possono condurre al sangue in un attimo – e si mettono a danzare con un ritmo orgiastico, sventolando le mani, le braccia, i capelli, i fazzoletti istoriati con versi amorosi, gittando gridi gutturali acutissimi, come squittire di bestie selvatiche. Tutta la valle è un brulichio e un trepestio sonoro. A guardarla panoramicamente quella folla che salta per dei giorni e delle notti intere, sotto il sole cocente, sudata, ansante, con gli occhi infoschiti dall’afa e dalla luce, in mezzo a un polverone spesso e fumoso, dà l’idea di una specie di ubriacatura panica, di un popolo preso da un morbo sacro».
È a Polsi, in questo luogo denso e magico, religioso e sensuale, che tutte le vicende contenute in “Emigranti” si intrecciano e trovano il loro drammatico epilogo. Tuttavia, nonostante l’andamento da vera e propria tragedia classica di questo ineguagliabile romanzo, alla fine della storia, emerge, con una funzione quasi catartica, la figura emblematica di un grande vecchio, Rocco, che l’autore paragona ad un poderoso tronco di quercia, uno di quegli alberi che il fulmine colpisce, l’incendio divora, gli uomini saccheggiano, ma che ad ogni primavera ributtano, come per magia, come per miracolo. Perché Rocco sa che in quel mondo elementare e primordiale non c’è spazio per la disperazione e non c’è morte senza rinascita.
*avvocato e scrittore
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