LAMEZIA TERME «La differenziazione di vittime crea amarezza e tristezza. Sono tutte vittime e sono, mi permetto di dire, anche vittime innocenti». Non usa giri di parole don Marcello Cozzi, lo fa da una vita. La sua, spesa da decenni nella lotta infinita alla criminalità organizzata e al sostegno dei collaboratori di giustizia e vittime di mafia. Il suo è contributo importante, a tratti fondamentale per comprendere la “cultura” della ‘ndrangheta e lo ha fatto a Girifalco nel corso dell’evento organizzato in occasione della giornata contro la violenza sulle donne. Accendendo i riflettori su quel legame invisibile tra le donne vittima di violenze e la ‘ndrangheta che ha già indicato il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, don Marcello Cozzi cita alcuni degli esempi più significativi e che meglio aiutano a mettere a fuoco una incomprensibile classificazione tra vittime di mafia di “serie a” e di “serie b”.
C’è la storia di Maria Concetta Cacciola, morta nell’agosto del 2011 a 31 anni dopo aver ingerito dell’acido muriatico, vittima della sua famiglia proprio perché aveva deciso di ribellarsi alle logiche ‘ndranghetiste, pagando con la propria vita l’essersi rivolta ai carabinieri. E poi Tita Buccafusca, morta nell’aprile del 2011 a 37 anni all’ospedale di Polistena dove era stata ricoverata dopo aver ingerito, anche lei, acido muriatico. La donna, moglie di uno dei più importanti e potenti boss della ‘ndrangheta vibonese (e non solo) Pantaleone Mancuso “Luni Scarpuni”, aveva deciso di collaborare con la giustizia e di chiedere protezione. C’è poi la storia terribile di Rossella Casini, studentessa di 25 anni vittima anche lei della ferocia della ‘ndrangheta. La sua vita cambierà drammaticamente dopo aver conosciuto Francesco Frisina, studente fuori sede di Economia, originario di Palmi. Il 4 luglio del ’79 due sicari uccidono Domenico Frisina, padre di Francesco che, poche settimane dopo, sfuggirà miracolosamente ad un altro agguato. Casini convince allora il compagno a denunciare tutto ma è un tradimento che la famiglia calabrese non può perdonare: Francesco viene convinto a ritrattare, lei verrà uccisa e fatta a pezzi da Domenico Gallico e Pietro Managò su ordine di Concetta, la sorella di Francesco. «Quando raccontiamo queste storie – spiega don Marcello Cozzi – non raccontiamo storie di vita di “serie b” ma raccontiamo storie di donne coraggiose, forse doppiamente coraggiose perché non solo hanno lottato per poter vivere il loro amore come una donna vuole fare, pienamente, ma hanno lottato anche per ribellarsi a quel sangue che gli scorreva nelle vene che è poi il sangue della ‘ndrangheta. Altro che differenziazione di vittime».
Presidente della Fondazione nazionale antiusura, in passato anche vicepresidente di Libera, don Marcello Cozzi, qualche mese fa sul “Venerdì” di Repubblica ha raccontato delle sue esperienze nel carcere di Rebibbia con i collaboratori di giustizia, tra cui Gioacchino La Barbera che partecipò all’attento in cui perse la vita il giudice Falcone, e della sua rubrica telefonica piena di numeri di collaboratori ma anche di familiari di vittime di mafia. Ed è autore di tanti libri tra cui “Lupare Rosa” edito da Rubbettino. «Attraverso le storie di queste donne, ma devo dire attraverso le storie di tante donne che in questi anni abbiamo accompagnato e stiamo ancora accompagnando – ha spiegato – ho avuto e abbiamo la possibilità di conoscere davvero che cos’è la ‘ndrangheta. Negli anni, impegnato su questo fronte, ho avuto la possibilità di conoscere tante vittime dell’usura e dell’estorsione, ma anche di parlare con tanti collaboratori di giustizia, non solo della ‘ndrangheta, e quindi la possibilità di entrare in quelle storie di morte, di violenza e di terrore». Storie di donne che si sono ribellate alla ‘ndrangheta, «quelle che mi danno la cifra di cos’è esattamente la ‘ndrangheta che non è semplicemente e non solo un’organizzazione criminale che estorce, che spaccia o che traffica armi, no. È qualcosa di più, è un modo di concepire la vita ed è un modo di costruire relazioni è cultura, anzi mi permetto di dire, è anti-cultura».
Una cultura mafiosa e ‘ndranghetista che si può battere solo «costruendo culturalmente percorsi alternativi, per esempio facendo incontri come quello di questa sera, per esempio parlando nelle scuole con i ragazzi, per esempio far capire ai ragazzi che il mito del più forte, di chi grida di più, il mito dell’apparenza non paga. Io non posso dimenticare che nella storia di Tita, nella solo di Cetta, in quella di Angela tra le tante cose in comune c’è che loro sono rimaste abbagliate all’inizio dall’apparire di questi ragazzi che avevano soldi, avevano macchine e venivano da famiglie che vivevano nell’agio. Allora forse se ci si educa ad una cultura contraria che non è quella dell’apparire ma quella del sacrificio e di non volere subito tutto, penso che questa potrebbe essere una strada per poter contrastare la cultura ‘ndranghetista». Nel corso del suo intervento don Marcello Cozzi ha rievocato il termine “sono state suicidate”, pescato dagli atti giudiziari perché quando si muore ingerendo acido muriatico «è difficile arrivare ad una conclusione e stabilire che si tratti di un omicidio ma sappiamo che cosa significa ingerire acido muriatico e morire in quel modo: ore e giorni strazianti di agonia ma chi vuole uccidersi non lo fa in questo modo. Cetta e la stessa Tita non si sarebbero uccise dopo che hanno lottato tanto per poter avere una vita dignitosa e forse anche per questo chi ha condotto le indagini ha detto semplicemente sono state suicidate».
Per delineare e comprendere la “cultura” ‘ndranghetista e la ferocia della mentalità criminale delle famiglie, don Marcello Cozzi richiama alla memoria la storia di Annunziata Pesce, sparita agli inizi degli anni ’80. «Si parlava – racconta – di una donna che era scomparsa nella zona della Piana, ma non ci si ricordava nemmeno più il nome. Ma Giusy Pesce, collaboratrice di giustizia, nel maggio del 2012 dall’aula bunker di Rebibbia rispondendo alla Corte che era tutta al femminile, fa il nome di Annunziata quando le viene chiesto se lei sapesse qualcosa di questa ragazza e lei dice “sì, era una mia parente e si chiamava Annunziata”. Ecco, a me ogni volta che leggo quel passo, vengono i brividi perché è come se Annunziata fosse rinata quel giorno. Dopo 40 anni, in un luogo pubblico, si fa il suo nome. E poi quando Giusy dice che secondo lei Annunziata è stata sepolta in una tomba vuota, probabilmente in una tomba vuota nel carcere di Rosarno, anche lì mi dà una cifra di che cos’è la ‘ndrangheta e di come può essere spietata questa cultura e di come può essere davvero un’anti-cultura perché Giusy dice che è stata sepolta probabilmente in una tomba bianca perché così i familiari possano andare lì a fare una preghiera e a portare un fiore. Quegli stessi familiari però che l’hanno voluta morta».
È in questo contesto tanto complesso quanto drammatico che a giocare un ruolo fondamentale sono l’educazione e il supporto delle associazioni, emblema di quella società civile che si ribella allo strapotere ‘ndranghetista. «Le associazioni e la società civile sono fondamentali – spiega don Marcello Cozzi – perché chi fa la cultura è la gente, sono le persone, non è soltanto la scuola. È quello che noi ci diciamo in mezzo alla strada, sono le relazioni che costruiamo, è il modo con cui noi costruiamo la società e quindi il ruolo della cosiddetta società civile. E poi il ruolo che abbiamo scoperto in questi anni come società civile, con le nostre associazioni, con Libera, con la fondazione antiusura ma come tante associazioni che ci sono in giro per l’Italia, quel ruolo di costituirci parte civile nei processi è fondamentale». «Noi siamo stati in alcuni processi accanto a vittime che tremavano solo all’idea di vedere che in quelle gabbie ci stavano i loro aguzzini, ma la nostra presenza, la presenza delle persone normali, delle persone che rappresentavano la comunità, è fondamentale non solo per le vittime, ma anche per i carnefici per far capire loro che quella storia mafiosa di oppressione e di violenza non è una storia che si può ridurre soltanto fra loro e i carnefici ma riguarda tutti, anche noi e quindi la nostra presenza nelle aule di tribunale è fondamentale perché offendendo le vittime loro hanno offeso anche noi». (redazione@corrierecal.it)
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