REGGIO CALABRIA Risale al 2 dicembre 2016 il primo intervento a cuore aperto. Nacque allora la Cardiochirurgia pubblica dell’ospedale di Reggio Calabria, che per anni era rimasta chiusa, con i macchinari e i letti operatori imballati, i corridoi vuoti e l’odore sospeso di gomma, cellophane e polvere invecchiata. Nel luglio 2012 la struttura era stata inaugurata dal presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti, pur senza le assunzioni del personale occorrente. Nel tempo seguirono indagini della Guardia di finanza, che per il mancato utilizzo del reparto segnalò un danno erariale da 40 milioni di euro; esposti all’autorità giudiziaria; interrogazioni parlamentari su presunti conflitti di interesse; aspri scontri istituzionali e perfino una specie di Opa dell’Università di Catanzaro per la direzione della stessa Cardiochirurgia.
Domani, con il convegno di alto profilo “Cardiochirurgia pubblica di Reggio Calabria: sei anni di luci” – cui tra gli altri interverranno il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, lo scienziato Giuseppe Remuzzi e il commissario di Azienda Zero, Giuseppe Profiti –, si celebrerà il sesto compleanno dell’unità cardiochirurgica reggina, che ha superato i 2mila interventi, prodotto oltre sei milioni ricavi all’anno, diminuito l’emigrazione sanitaria e ottenuto risultati certificati di eccellenza: 0.6 di mortalità per il bypass aortocoronarico e 1.7 per la valvola.
La storia del reparto, provvisto di tecnologie all’avanguardia e di una bellissima quanto confortevole area di degenza, è incredibile ma vera. Quasi nessuno avrebbe scommesso sulla sua attivazione, a lungo congelata per causa di un attendismo politico figlio del Piano di rientro e della lentezza granitica degli apparati burocratici, spesso indifferenti ai bisogni dei malati. Questa storia va riassunta per punti, in modo da spiegare, alla luce delle condizioni di partenza e di sistema, il “miracolo” compiuto a Reggio Calabria, all’estremo sud dell’Italia.
Primo, Pasquale Fratto, direttore confermato della Cardiochirurgia in questione, è un professionista calabrese formatosi all’estero e soprattutto nella “scuola” del dipartimento cardiotoracovascolare dell’ospedale Niguarda di Milano, non a caso intitolato al professor Angelo De Gasperis, pioniere della specialità in Italia.
Secondo, fino alla sera precedente, Fratto non voleva partecipare al colloquio del concorso a primario. Era scettico sulla possibilità di lavorare in Calabria e di mettere a servizio le proprie competenze ed esperienze in un contesto regionale di emergenza permanente e diffusa intolleranza al merito e alla disciplina professionale.
Terzo, tra i protagonisti della battaglia per l’apertura della Cardiochirurgia ci fu Gianluigi Scaffidi: oggi commissario straordinario dell’ospedale pubblico di Reggio Calabria, conosciuto come Gom, e tra il 2015 e il 2016 fra i maggiori sostenitori dell’autonomia del reparto e della necessità che il suo direttore fosse il più titolato tra i partecipanti all’apposita selezione pubblica, che all’inizio prevedeva un tetto di 40 punti assegnabili per il curriculum e di 60 per la prova orale, poi modificato con l’inversione dei due massimali.
Quarto, il compianto giornalista Paolo Pollichieni, ai tempi direttore del Corriere della Calabria, dedicò ampio spazio alle cangianti vicende della Cardiochirurgia reggina, con l’indubbio merito d’aver dato un’informazione obiettiva, veritiera e di utilità pubblica.
Quinto, l’allora commissario alla Sanità calabrese, Massimo Scura, garantì le risorse e gli strumenti per l’avvio delle attività del reparto, con il contributo fattivo di Frank Benedetto, primario cardiologo del Gom e in quella fase al vertice della stessa azienda ospedaliera.
Sesto, grazie all’allineamento tra il management sanitario e le componenti politiche – intanto Mario Oliverio era diventato presidente della Regione Calabria –, Fratto, che doveva costruire il reparto di sana pianta, riuscì a far velocizzare i concorsi e siglò una convenzione vantaggiosa con l’ospedale Niguarda per formare i cardioanestesisti tra Reggio e Milano.
Ciò significa che con la volontà e la cooperazione si può recuperare il terreno perduto, esprimere autorevolezza, acquistare credito pubblico e perseguire il bene comune.
È proprio Fratto a raccontarci i sentimenti che provò in quel periodo difficile ma sorprendente. «Ho avuto – confida commosso – un’attrazione verso la scommessa in atto. Probabilmente fu una spinta subconscia. Ho dato l’anima per il progetto, lasciando la famiglia ancora a Bergamo. Non saprei spiegarmi; può darsi che non abbia mai tagliato il cordone ombelicale con la Calabria. L’idea di tornare l’avevo sempre avuta e spesso messa da parte. Poi si è realizzata. Magari c’è una voglia di rivalsa nei confronti del Nord, che talvolta mi sovviene. È bello dimostrare che non siamo così scarsi come si dice in giro».
«A Milano – ricorda Fratto – mi sono specializzato, poi ci sono rimasto. Sono stato anche per tre anni a Edimburgo, dove ho potuto irrobustire la mia formazione, anche con successive esperienze professionali a Berlino e poi nel mondo arabo. Al Niguarda sono stato per quasi 18 anni, occupandomi di trapianti cardiaci, di casi complessi e anche rari. Non nascondo che ero tentato di andare in altri posti. Poi, però, l’amore per le origini ha vinto. Operare miei conterranei in Calabria mi dà una soddisfazione enorme, perché il nostro reparto frena l’emigrazione sanitaria ed evita molti drammi legati ai viaggi della speranza. Credo che questo aspetto mi spinga al massimo impegno e al lavoro di gruppo. Noi siamo una squadra. Mi riferisco a tutto il Gom, non soltanto al nostro reparto. Affrontiamo i vari casi coordinandoci con i medici e il personale delle altre unità operative, come deve essere».
«In Calabria la nostra Cardiochirurgia – dettaglia Fratto – è l’unica in un ospedale hub che ha tutte le dotazioni previste. Abbiamo fatto il 68 per cento di interventi in elezione. Il 20 per cento è invece urgenza e il 12 per cento è emergenza. Su 100 pazienti, 80 arrivano da Reggio, due da altre regioni e 18 da altre province calabresi. Riguardo a quest’ultimo dato, quasi il 50 per cento proviene dalla provincia di Cosenza, il 23 per cento dalla provincia di Catanzaro, il 22 da Vibo e una piccolissima parte da Crotone. Ci sono poi i dati sulla mortalità. Nel merito, nell’ultimo audit abbiamo avuto lo 0.6. Per quanto riguarda il bypass aortocoronarico, l’eccellenza è al di sotto dell’1.8. La media nazionale è generalmente intorno al 2 per cento e noi siamo allo 0.6. Per quanto riguarda la valvola, siamo all’1.7 e l’eccellenza è prevista al di sotto del 2.5. Si tratta di dati straordinari, con un dato di mortalità attesa molto alto, che supera quello medio tra 6.4 e 6.9. Chiarisco: ogni paziente candidato a un intervento chirurgico ha un indice di mortalità ricavato sulla base di alcuni parametri; per esempio l’insufficienza renale, il diabete, la refrattarietà a terapie mediche, uno scarso livello di contrazione del cuore e così via. Noi abbiamo un rischio di mortalità elevatissimo, superiore al 6.4 e al 6.9, ma ci muoiono lo 0.6 dei pazienti per il bypass e l’1.7 per la valvola. Ciò indica che il lavoro che facciamo è di sicura qualità. Con il nostro audit interno, poi, controlliamo i risultati forse come nessuno in Italia».
«In virtù di questi dati – sottolinea Fratto – ci servono più personale e più posti letto. Noi abbiamo abbiamo tre, quattro mesi di lista d’attesa. Abbiamo, penso, una cinquantina di pazienti che aspettano, che vogliono venire qui, non vogliono andare fuori. Ma prima o poi, se io non li chiamo andranno fuori, perché la maggior parte dei nostri dieci letti è occupata per attività di urgenza».
«Abbiamo – dichiara Salvatore Costarella, direttore sanitario del Gom – un’elevata qualità professionale, sia per il livello delle prestazioni erogate, sia per la loro quantità, sia per la capacità di lavorare anche con organici ridotti. Adesso il presidente Occhiuto sta risolvendo questa criticità del personale. Grazie a lui, si sta muovendo molto altro, dopo anni di immobilismo. Diamo certezze alla Calabria ed evitiamo tanti viaggi della speranza. Una volta, il paziente che aveva un problema al cuore doveva fare un lungo viaggio, spesso anche rocambolesco, in estrema urgenza; non di rado con aerei militari o elicotteri. Oggi ciò non succede più e all’interno del Gom il cittadino trova tutte le risposte».
«Riguardo alla proficua collaborazione tra il Gom e il Niguarda per l’avvio della nostra Cardiochirurgia, si tratta di una riprova – rimarca Costarella – di serietà e di responsabilità. Quando un reparto nasce per la prima volta, affiancarsi a strutture che hanno già un’organizzazione consolidata è indice di grandissima responsabilità di grandissima sensibilità nei confronti del paziente. Questo, devo dire, va riconosciuto in particolar modo al dottore Fratto, che è un eccellente professionista e tra l’altro veniva dal Niguarda. Abbiamo importato un modello organizzativo già rodato che adesso, da noi, è autonomo ed efficiente al 100 per cento».
«Io penso che il problema della sanità della Calabria, che poi è in gran parte il problema della sanità del Sud, va affrontato tenuto conto che tutto il Servizio sanitario nazionale del Paese deve ritornare ad essere centrale per l’agenda politica». È diretto Giuseppe Remuzzi, nefrologo e scienziato di fama mondiale. «La sanità – rimarca – è la cosa più importante che abbiamo. Quindi il Servizio sanitario deve essere uguale in tutte le Regioni e bisogna fare un grande sforzo perché tutte le persone che abitano in qualunque posto dell’Italia abbiano la possibilità, come fu deciso durante la famosa istituzione del Servizio sanitario nazionale, di avere a disposizione le migliori cure gratuitamente, di là dallo stato sociale, dai soldi che hanno, dal loro livello di istruzione. Dobbiamo ritornare a quel Servizio sanitario lì e la Calabria non deve essere diversa dalle altre regioni».
«Una volta, durante il programma televisivo Piazza pulita, dissi che tutti dovevamo impegnarci – racconta Remuzzi – per trasformare la Calabria nella capitale europea della salute. Si può fare, malgrado i soldi per il Servizio sanitario continuino a diminuire. Se noi ci impegniamo, e se tutte le regioni del Nord si impegnano, in un certo senso, ad adottare la Calabria, quanto detto si può realizzare. Certo, bisogna che la gente si convinca che ciò è possibile; bisogna che le persone ci aiutino e che ci sia qualcuno che abbia voglia di mettersi in gioco, di governare il sistema. Adesso, tra l’altro avete una persona nuova, che io ho conosciuto. Mi riferisco a Giuseppe Profiti, il commissario di Azienda Zero. Mi pare che abbia tutta l’intenzione di compiere ogni sforzo per governare il sistema. Occorre procedere ad una rilevazione dei bisogni, vedere dove sono i problemi, vedere quali sono le cose che non vanno e porvi rimedio. Certo, è necessario anche un investimento importante».
«La prima cosa che trovo sbagliata – osserva Remuzzi, che tra l’altro dirige l’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri – è che tanti calabresi bravissimi sono in ogni parte del mondo e non hanno alcuna intenzione di tornare. Ciò è molto sbagliato. In questo momento, i cinesi sono i più forti del mondo nel campo della ricerca biomedica. Ciò perché hanno mandato la gente a studiare fuori e poi li hanno fatti tornare. Certo, in Cina c’è un regime. Però, se nel nostro Paese io ho il desiderio di vedere che le cose funzionino in Calabria, non si capisce perché non debbano avere lo stesso sentimento quei colleghi che ci sono nati e cresciuti, che devono molto alla loro terra».
«Deve esserci – continua Remuzzi – una persona su cui contare, fare riferimento, che ti dica ciò che serve. Poi tutte le regioni d’Italia con eccellenze in vari campi della medicina devono impegnarsi a dare un aiuto. Ciò vuol dire, per esempio, prendere dei ragazzi giovani che vengano da noi a imparare e prendere delle persone nostre che vadano in Calabria per un certo periodo. Bisognerebbe creare un gemellaggio tra la Calabria e i posti di medicina più forti che ci sono nel Paese. Deve diventare una specie di sfida che tutti i partecipanti siano orgogliosi di raccontare».
«È possibile cambiare la sanità nazionale e quella calabrese. Basta che il sistema sia finanziato e basta che non ci facciamo schiacciare dal privato. Il privato – spiega Remuzzi – ha in mente l’interesse degli azionisti e non l’interesse degli ammalati. Il privato vive per mantenere o aumentare il fatturato, mentre noi dobbiamo fare prevenzione e diminuire il fatturato. Quindi partiamo da presupposti completamente diversi. Poi non è vero che alla gente non interessa se chi la cura è pubblico o privato. Alla gente, fermo restando che vanno date risposte di qualità, interessa moltissimo sapere se chi la cura lo fa per dovere oppure per mantenere o aumentare il fatturato; il che vuol dire interventi eventualmente non appropriati. Oggi si ragiona così: più cose fai, meglio è; più sei efficiente e meglio è. E non importa se sei efficace, cioè se curi veramente quello che c’è bisogno di curare. Bisogna ribaltare la prospettiva. Non bisogna guardare dal punto di vista dell’efficienza, ma bisogna guardare dal punto di vista dell’efficacia, che è la cosa importante. L’efficacia delle cure vuol dire come minimo curare quelli che hanno davvero bisogno e non curare tutti quelli che vengono da te perché questo ti fa produrre fatturato. Non è pensabile che uno vada in ospedale e ti dicano che non puoi avere un’ecografia del cuore, ma se la paghi la farai oggi pomeriggio. Al riguardo devono essere le persone reagire, a non accettare più queste discriminazioni. Abbiamo bisogno dell’aiuto di medici che credano nel Servizio sanitario nazionale e abbiamo bisogno di qualcuno che governi veramente il sistema, cioè che guardi le esigenze e che veda dove bisogna investire per curarsi. Poi credo che in Calabria ci siano anche altri problemi. Bisogna prestare molta attenzione alla corruzione, che esiste anche nel Nord. Da noi girano talmente tanti soldi intorno alla sanità, che è molto facile che ci siano episodi di comportamenti scorretti. Ci vuole qualcuno che controlli».
«La pratica clinica si impara in ospedale più che in università. Quindi bisogna strutturare ospedali di insegnamento – sostiene Remuzzi – che siano collegati all’università, nei quali i ragazzi possano andare e imparare a fare il medico dall’inizio, da subito. Da quando? Secondo me già da studenti di Medicina e comunque dal primo anno di specialità. Non c’è bisogno di aspettare che uno si sia specializzato, per farlo operare. Se è bravo, se è capace, può cominciare a operare al primo anno di specialità, insieme a qualcuno che glielo insegni. Non ha senso che si perdano gli anni più belli dell’entusiasmo di questi giovani. Certo, devono fare le cose che sono capaci di fare, ma ci sono dei ragazzi più bravi dei medici con vent’anni di esperienza, quindi non si può mai generalizzare».
Oggi Corriere Suem ha riportato messaggi significativi per la sanità calabrese, che può trarre stimoli importanti dalla storia della Cardiochirurgia pubblica di Reggio Calabria. (redazione@corrierecal.it)
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