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Reventinum, il “metodo” Scalise per inserirsi nei lavori delle altre ditte

O il lavoro o le mazzette. Prima la richiesta “elegante” poi l’imposizione con la forza. Le estorsioni alle imprese boschive, il desiderio di uccidere l’avvocato Pagliuso e la paura che il loro kil…

Pubblicato il: 03/12/2022 – 17:08
di Alessia Truzzolillo
Reventinum, il “metodo” Scalise per inserirsi nei lavori delle altre ditte

LAMEZIA TERME La zona di influenza della cosca Scalise comprendeva i Comuni di «Decollatura, Soveria, anche Serrastretta, Carlopoli, San Pietro Apostolo, Cicala, nonché Panettieri, Bianchi e Colosimi oltre il confine con il cosentino». La famiglia Scalise lavorava inserendosi nei lavori che venivano presi in appalto da altre ditte. Pino Scalise e i suoi figli «pretendevano di inserirsi anche essi nei lavori oppure richiedevano il pagamento di mazzette. Ad occuparsi del “dialogo” con gli imprenditori e la riscossione delle somme, se ne occupava per lo più Luciano». «Queste richieste erano avanzate prima in modo per così dire “elegante”» ma in caso di rifiuto, gli  Scalise si imponeva piazzando bombe o appiccando incendi ai mezzi delle ditte.
A parlare con la Dda di Catanzaro è Antonio Scalise, 45 anni, figlio del capo cosca Pino e fratello di Luciano Scalise. L’uomo non ha lo status di collaboratore di giustizia e non è sottoposto ad alcun programma di protezione anche se i suoi verbali sono già stati depositati agli atti del processo “Reventinum” che si sta svolgendo, con rito ordinario, davanti al Tribunale di Lamezia Terme. Il nome del procedimento nasce dal nome del monte Reventino, mille metri di altezza alle spalle della Piana di Lamezia Terme dove sono arroccati i comuni montani sui quali gli Scalise, stando al costrutto accusatorio, hanno imperversato per decenni.
La famiglia Scalise – titolare di una ditta di movimento terra – era circondata da soggetti che la informavano «di situazioni di potenziale interesse sul territorio». Tra questa Salvatore Mingoia, dice l’uomo, che incontrava spesso i fratelli Scalise e il padre Pino «per riferire loro, tra le altre cose, di nuovi cantieri avviati sul territorio o di possibili lavori di interesse per la famiglia».
Vengono annoverati una serie di cantieri nei quali gli Scalise si sarebbero “inseriti”: «Il cantiere per la realizzazione della chiesa presso l’ospedale di Soveria Mannelli (2008-2009); il cantiere per la realizzazione del metanodotto (2011-2013) ed il cantiere per la posa dei cavi elettrici a Soveria Mannelli (2000-2001)».

Le mazzette agli imprenditori del taglio boschivo

«La richiesta di mazzette a titolo estorsivo riguardava anche i boscaioli, ovvero gli imprenditori che si occupavano periodicamente del taglio del legname». Il controllo degli Scalise era ormai talmente assodato «che talvolta capitava che erano gli stessi boscaioli a venire ad informarsi per sapere con chi dovevano interfacciarsi per poter lavorare tranquillamente con ciò intendendo a chi dovevano versare la mazzetta a titolo estorsivo».
Ai lavori boschivi era interessato anche Angelo Rotella che più volte avrebbe discusso con Luciano Scalise «di questioni legate ai lavori boschivi; in particolare ricordo che affrontarono questo argomento già durante i funerali di Daniele». Daniele Scalise è uno dei figli del capo cosca Pino Scalise, ucciso in un agguato (i cui esecutori rimangono ignoti) il 28 giugno 2014.
Luciano riusciva a fare entrare «la ditta di Rotella nei lavori che riusciva a prendersi sul territorio».
«Questa situazione, ovvero la pretesa di mazzette sui boscaioli, nonché sugli imprenditori che lavoravano nei cantieri si è protratta quanto meno per 20 anni», fino agli arresti della Dda di Catanzaro con l’operazione Reventinum che hanno condotto in carcere Pino e Luciano Scalise. 

L’omicidio dell’avvocato Pagliuso e il desiderio di vendetta degli Scalise

Un’operazione che nasce da un tragico fatto di sangue: l’omicidio dell’avvocato Francesco Pagliuso, avvenuto il 9 agosto del 2016. Secondo quanto stabilisce una sentenza di primo grado furono proprio Pino e Luciano e Scalise (condannati all’ergastolo) i mandanti dell’omicidio del penalista lametino. Pino e Luciano Scalise accusavano l’avvocato di «difendere persone che non doveva difendere», ovvero i rivali Domenico e Giovanni Mezzatesta autori dell’omicidio di Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo, vicini agli Scalise. Per i Mezzatesta l’avvocato Pagliuso aveva ottenuto in Cassazione l’annullamento dell’aggravante della premeditazione del duplice omicidio con conseguente ammorbidimento della pena. Gli Scalise «biasimavano» questa difesa e sottolineavano «la necessita di farlo fuori».

La cosca e le sue armi

L’omicidio è avvenuto su commissione anche se la famiglia aveva «disponibilità di armi» che teneva nascoste in una cava non distante dalle loro abitazioni «sia in alcuni terreni adiacenti ad essi». Secondo le dichiarazioni rese, le armi venivano interrate, presumibilmente, «in fusti in plastica, tipo quelli utilizzati per contenere le olive».

La paura per l’arresto di Marco Gallo e le indagini di Nicola Gratteri

Dopo l’arresto di Marco Gallo, considerato dalla distrettuale di Catanzaro il killer della cosca Scalise, la famiglia comincia a preoccuparsi. Luciano Scalise commenta il fatto auspicando che Gallo «non intraprendesse un percorso di collaborazione, anche se si mostrava al contempo tranquillo sulla fedeltà di Gallo in forza di un accordo che lui stesso e Gallo avevano in precedenza pattuito, ovvero che qualsiasi cosa fosse accaduta a seguito degli omicidi. Gallo non avrebbe parlato con l’autorità giudiziaria».
Dopo l’arresto di Marco Gallo le indagini non si sono fermate, al contrario, tanto che Luciano Scalise «attribuì questo proliferare di indagini alle iniziative investigative del Procuratore Gratteri, tanto da affermare “ora vediamo che cosa possiamo fare per fermare la situazione”». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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