COSENZA Si è pentito per paura: debiti di droga con pezzi del “Sistema” ’ndranghetistico di Cosenza. Gli incassi in ritardo per alcune partite di cocaina, i soldi che mancano e i primi 5mila euro “saltati”. Per recuperarli, Giuseppe Zaffonte si mette in un gioco pericoloso, lavora per rifornirsi di droga “sottobanco”, «all’insaputa del clan Lanzino, per recuperare denaro da consegnare a Marco D’Alessandro, l’uomo che al momento ha l’incarico di gestire lo spaccio di cocaina e marijuana per conto di Michele Di Puppo». Il problema è che i soldi non arrivano e il debito raddoppia. Iniziano le telefonate («con le quali in modo velato mi fanno intuire le loro cattive intenzioni»), arriva una bottiglietta piena di benzina davanti al suo negozio di ortofrutta, poi anche i messaggi minatori su Messenger. A quel punto Zaffonte decide che può bastare. La sua seconda vita inizia con l’ammissione di quella paura, mediata dal linguaggio burocratico di un verbale: «Credo di versare in imminente pericolo di vita dovuto al fatto che ho un’esposizione economica con alcuni elementi della criminalità organizzata di Cosenza». Gli saranno servite ore per meditare su quelle parole, pronunciate dopo anni di servizi resi al “Sistema”. Estorsioni, traffico di droga, rapporti con cosche di altri territori. Zaffonte non è certo un boss, eppure i suoi racconti toccano tre province e colpiscono i clan al cuore del business più importante.
Tutto inizia nel carcere di Cosenza. Lì Zaffonte, condannato a tre anni e due mesi per una rapina commessa a Rimini, entra nelle grazie di Attilio Chianello, considerato vicino alla cosca “Rango-Zingari”. È lui a “battezzarlo”: il rapinatore, «durante l’ora d’aria al passeggio», diventa un «“picciotto” appartenente al clan Lanzino». Il suo è il grado più basso, la “Prima”. Non è neppure un ingresso sostanziale nei ranghi mafiosi, quello avverrà una volta scontata la pena quando, come gli viene indicato, dovrà recarsi in un negozio di ortofrutta gestito da Alberto Superbo a Castrolibero.
Altro incontro interlocutorio: «Mi dissero di prendere i miei tempi e di ritornare successivamente per mettermi a disposizione del clan». Una veloce conoscenza e mille euro in regalo, niente male per un novellino. Zaffonte si mette subito a disposizione del clan: «A distanza di dieci giorni da quell’incontro ho iniziato a spacciare cocaina e a effettuare qualche atto intimidatorio». Zaffonte viene utilizzato anche per commettere rapine. E «poiché avevo dimostrato di essere un uomo serio e riservato, Michele Di Puppo decise di farmi ottenere il grado di “Seconda”. Il teatro della “promozione” non è un penitenziario ma l’abitazione di un altro uomo della cosca, la benedizione è quella di uno dei personaggi storici del clan Lanzino. I compiti sono i soliti, «la commissione di rapine e lo spaccio di stupefacenti». Zaffonte sale di livello e, parole sue, conosce «molte persone “importanti” nell’ambito della malavita soprattutto di Cosenza».
Quegli incontri lo aiutano «a uscire da qualche brutta situazione». Nel 2016, racconta agli inquirenti, «Roberto Porcaro, che a oggi è il capo indiscusso della cosca Lanzino, mi ha aiutato a risolvere un problema con Tonino Abruzzese, detto “Strusciatappine”, perché avevo venduto “sottobanco” della cocaina» a un cliente che «doveva acquistare droga, per accordi intervenuti tra i gruppi, appunto da Tonino Abbruzzese».
Quello della droga “sottobanco”, cioè commercializzata al di fuori dei patti sanciti nel Sistema, è un tema sensibile per le cosche bruzie. In questo caso è l’intervento di Porcaro a evitare guai per Zaffonte. Ad altri che si improvvisano grossisti andrà peggio.
Il rapinatore battezzato “picciotto” diventa un corriere della droga. I suoi racconti portano da Cosenza a Crotone, dove si sarebbe recato «per consegnare grossi quantitativi di cocaina e marijuana che trasportavo sempre a bordo della mia autovettura». Il carico avveniva nei pressi del centro storico di Rende e il compenso era 1500 euro a viaggio, «sebbene per almeno due volte mi hanno consegnato solo 350 euro». L’ultimo trasporto sarebbe avvenuto proprio a ridosso della decisione di collaborare con la giustizia: «Dieci giorni fa ho consegnato dieci chili di marijuana e mezzo chilo di cocaina», sempre a Crotone.
Ne può raccontare di cose un corriere della droga. Nei verbali di Zaffonte appaiono i fornitori della Sibaritide che tengono la droga sotterrata in un appezzamento dietro casa e la recuperano con un piccolo escavatore. Ci sono le consegne avvenute a Cosenza per conto di due ragazzi vicini agli italiani e agli zingari: 10-15 chilogrammi di “fumo” pagati a 90 centesimi al grammo. E ci sono i nomi delle cosche storiche. «Noi – racconta il pentito – per la cocaina avevamo rapporti con i Pelle-Vottari del Reggino, io sono stato anche a casa di uno di loro. Tramite questi soggetti ci rifornivamo di stupefacente. Ho avuto anche rapporti diretti con Mico Megna, che al momento posso indicare come l’esponente apicale delle cosche di Crotone, specie dopo l’arresto degli esponenti della cosca di Cirò. Ho conosciuto Megna in relazione a un’estorsione ai gestori della funivia di Lorica, che era stata perpetrata da Renato Piromallo senza informare Megna, che aveva la gestione criminale di quel territorio. Per questo motivo, Piromallo avrebbe chiesto a Zaffonte di organizzare con i crotonesi per «dirimere la controversia».
Nei racconti dell’ex rapinatore le storie di droga si mescolano ad altre esperienze dirette nei business mafiosi. Zaffonte dà conto degli stipendi corrisposti ai membri del clan in carcere: 2-3mila euro per il boss Ettore Lanzino, tra 1.500 e 2mila per alcuni esponenti della famiglia Di Puppo.
Le somme, però, «a volte erano maggiori», dice il pentito. Un welfare variabile a seconda delle esigenze. E documentato: «Annotavamo tutto in un quaderno che per un periodo di tempo, ossia 3 o 4 mesi, ho tenuto io a casa mia», prima di passarlo a un altro affiliato «per evitare che potesse essere rinvenuto dalle forze di polizia». Il sostegno era esteso a capi e collaboratori: 1.500 euro per l’ex «custode di tutta la droga del clan» e per chi «aveva il compito di trasportare lo stupefacente dalla Locride»; 1.800 euro per un uomo arrestato per aver «favorito la latitanza» di Ettore Lanzino. Fonti di finanziamento: le estorsioni e un narcotraffico sottoposto a rigide regole.
«Nessuno può spacciare fuori dal Sistema», dice Zaffonte agli investigatori. «Una volta – continua – è successo a noi con dell’erba venduta all’università, che è zona nostra. In quella occasione per ritorsione siamo andati a prelevarla direttamente da questi studenti universitari che avevano spacciato a casa, gli abbiamo preso tre chilogrammi di erba che non abbiamo restituito: si trattava di parenti dei Pesce». Un esproprio per il quale, racconta il collaboratore di giustizia, «poi sono saliti direttamente i Pesce per chiedere spiegazioni e noi gli abbiamo spiegato che a Cosenza funziona così, che c’è il Sistema al di fuori del quale non si può spacciare, per cui non gli abbiamo restituito nulla e hanno perso tutto». Spacciare sottobanco è pericoloso. Chi lo fa rischia, Zaffonte ricorda un episodio che risale a quando i clan cosentini erano a corto di droga. In due «sono andati a rifornirsi a Cetraro, (…) hanno preso piccole quantità di cocaina e sono stati picchiati, una volta a Montalto Uffugo, davanti a una pescheria dove ci siamo lavati le mani» per via del sangue di una delle vittime.
O schiaffi o denaro, per chi non rispetta le gerarchie. Come «il proprietario della droga rinvenuta qualche anno fa in una sedia che arrivava dalla Colombia. Lui non venne arrestato per quel fatto, venne arrestato il cugino e, per il problema che aveva creato, poiché gli era arrivata la droga “sottobanco”, senza il consenso di nessuno degli appartenenti alla criminalità, ha dovuto dare 20mila euro a Roberto Porcaro».
Appena arrivato il proprietario della coca, «Porcaro gli diede due schiaffi e gli disse che lui conosceva bene come funzionava il Sistema di Cosenza per la droga, che non c’era bisogno di ripeterglielo. Quindi per il “sottobanco” che aveva fatto doveva pagare la somma di 20mila euro che poi ha dato in due mesi, somma che si sono divisi Porcaro e Luigi Abbruzzese». L’episodio risale al 2016 e ha portato a pesanti condanne per tutte le persone coinvolte: uno di loro, Domenico Baldino, che – racconta Zaffonte – «viaggiava sempre per la Colombia» ha scelto la strada della collaborazione con la giustizia. Da picciotti a pentiti, per paura o per cercare redenzione. (p.petrasso@corrierecal.it)
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