REGGIO CALABRIA «I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa». A parlare, il 3 novembre 2019, è Francesco Benito Pelaia, 49 anni, arrestato stamattina dai carabinieri perché ritenuto uno degli uomini di fiducia di suo cognato, il boss Umberto Bellocco detto “Chiacchiera”, considerato il capo della cosca alla luce dei nuovi assetti criminali. L’intercettazione agli atti dell’inchiesta “Blu notte”, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, dimostra – secondo gli inquirenti – come uno dei settori strategici della cosca di Rosarno era quello della spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. A tal proposito, il gip ha sequestrato la ditta individuale di Michelangelo Bellocco, 27 anni, finito ai domiciliari per concorso esterno. Nei confronti di suo padre, Francesco Antonio Bellocco, di 58 anni, il gip ha invece disposto l’arresto in carcere.
Nel corso delle indagini sono emersi anche momenti di tensione con gli esponenti della cosca Larosa che, a un certo punto, non hanno più tollerato la “competenza mafiosa” delle famiglie Bellocco e Lamari che, a causa degli accordi stretti circa venti anni prima, si estendeva fino alle aree montane ricomprese tra il Comune di Laureana di Borrello e quello di Giffone. Quegli accordi sulla spartizione dei boschi sono stati messi in discussione dai Larosa provocando pericolose frizioni tra la cosca di Giffone e i Bellocco. Le tensioni sono state risolte durante un summit svoltosi il 6 novembre 2019 all’interno della “Palfruit”, un’azienda agricola di Rosarno dove il cognato del boss, Francesco Benito Palaia, «circondato da un manipolo di giovani sodali armati, giungeva ad un passo dall’uccidere a colpi d’arma da fuoco Massimo Larosa, – si legge nell’ordinanza del gip – venendo infatti bloccato in extremis da Massimo Lamari, anch’egli presente al delicato incontro in qualità di esponente apicale pro tempore della cosca Lamari di Laureana di Borrello». Quando la situazione sembrava destinata a degenerare nello scontro armato, infatti, il peggio è stato evitato da Umberto Bellocco che, dal carcere, ha telefonato ed è intervenuto alla riunione di ‘Ndrangheta scongiurando così un potenziale eccidio.
È sempre il carcere uno degli snodi dell’inchiesta, i cui contenuti sono riassunti nelle oltre 2mila pagine dell’ordinanza di custodia cautelare. Gli investigatori sono riusciti a documentare «l’affiliazione di due nuovi consociati» alla cosca Bellocco «e i conseguenti festeggiamenti, nonostante alcune frizioni che minavano gli equilibri interni, per l’ingresso nell’“onorata società” dei “nuovi arrivati”». Singolare, sottolineano gli investigatori, è stato il brindisi con il quale un anziano della consorteria, davanti ai nuovi adepti e agli alti ranghi della cosca, ha voluto esaltare quel momento di vita associativa pronunciando la frase: «È cadda… è fridda… e cala comu nenti, a saluti nostra e di novi componenti (“è calda, è fredda e scende come niente, alla salute nostra e dei nuovi componenti”)». Le affiliazioni sarebbero state effettuate con l’avallo di un altro esponente di vertice recluso nel carcere di Saluzzo (Cuneo), il cui benestare è stato concesso attraverso l’utilizzo di un telefono detenuto in violazione delle norme e di uno degli esponenti della cosca Bellocco riconducibile al ramo dei “Testazza”. Il tutto, spiegano gli inquirenti, nell’ottica di partecipare il concetto unitario di cosca, che implicitamente ha amplificato la forza di intimidazione, creando le condizioni di assoggettamento delle popolazioni e ponendo le basi per stabilire quel rapporto di sudditanza psicologica posto a fondamenta delle imposizioni mafiose.
La cosca Bellocco, peraltro, segue una strategia di cooperazione criminale rispetto alle altre ‘ndrine, «in un regime di reciproci vantaggi», appuntano gli inquirenti. La strategia è resa possibile dall’incremento esponenziale dei traffici di stupefacenti. È per questo che i clan di ‘ndrangheta non hanno avuto più l’esigenza di contendersi la spartizione del territorio ma, anzi, hanno sfruttato la federazione con le altre associazioni per dividere i rischi d’impresa e ridurre gli sforzi economici per l’attuazione delle iniziative criminali. I Bellocco, oltre a condurre una politica criminale attenta, specie nei confronti dei loro alleati storici, avrebbero creato le condizioni per realizzare una serie di matrimoni tra i propri esponenti e quelli della cosca Pesce, in modo da rafforzare i rapporti tra i due casati mafiosi. In alcune fasi dell’indagine, gli esponenti dei Bellocco hanno manifestato la possibilità di ottenere il sostegno anche dei vertici della cosca Pesce, dando prova di essere supportati, oltre che da questi ultimi, anche da altre realtà di pari livello criminale della Piana di Gioia Tauro.
Moltissimi sono i summit di mafia censiti nell’inchiesta, alcuni necessari all’attuazione del programma criminale della cosca, che generalmente avvenivano all’interno dell’abitazione della sorella di Umberto Bellocco. Altri, ben più complessi, sarebbero stati organizzati nelle aziende agrumicole di Rosarno, dove venivano regolate le controversie con gli altri esponenti della ‘ndrangheta e dove gli incontri venivano pianificati nel dettaglio, tanto che ad alcuni soggetti armati della cosca veniva dato il compito di appostarsi e occuparsi di determinati settori di tiro per prevenire e reprimere eventuali pericoli. Ai summit era solito prendere parte, in diretta, anche il boss detenuto dal carcere, che con la propria presenza, «partecipata» a distanza, era portato ad irretire le iniziative dei presenti.
La gestione criminale del clan di Rosarno, tuttavia, non ha evitato la nascita corrente interna alla «cosca Bellocco», in contrasto con i vertici, solitamente indicata con il termine denigratorio degli «scissionisti».
Le intemperanze di questa fazione sono state represse dagli interventi risoluti di Umberto Bellocco, «nell’ambito di quelle che potremmo definire le regole organizzative e precettive in cui si sostanziava l’affectio societatis». Inoltre, per come accertato, i proventi dei delitti finivano nella «cassa comune» della cosca, custodita da una donna appartenente al sodalizio, la cui gestione è stata organizzata in maniera oculata, sia per il sostentamento dei consociati reclusi che per l’attuazione del programma criminale.
Consistente e diversificata è risultata anche la disponibilità di armi in capo all’aggregato di criminalità organizzata in questione, che venivano solitamente distribuite ai consociati in base alle contingenze. In diverse circostanze gli appartenenti alla cosca, hanno sottolineato che, in caso di necessità, non avrebbero esitato ad utilizzare le armi per uccidere. (ppp)
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