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Dal Pakistan a Roccella Jonica: l’avventura di una coppia Lgbt in fuga per amore

Marina Castellano, responsabile medico di Msf all’Agi: «È una vicenda che ci ha riempito il cuore»

Pubblicato il: 17/12/2022 – 17:56
Dal Pakistan a Roccella Jonica: l’avventura di una coppia Lgbt in fuga per amore

ROMA Per chi emigra raggiungere in Italia vuol dire coronare un sogno. Che, per alcuni, è anche d’amore. Come la coppia arrivata lo scorso ottobre dal Pakistan all’ambulatorio gestito da Medici senza frontiere presso il porto di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria. Si conoscono fin da piccoli, crescendo si innamorano. Ma lei è una trasngender e questo non è accettato nella società in cui vivono. Così decidono di andarsene, con il pieno appoggio delle rispettive famiglie. E’ una delle tante storie di chi sbarca sulla costa calabrese, come racconta all’Agi Marina Castellano, responsabile medico di Msf a Roccella Jonica. «E’ una storia che ci ha riempito il cuore e commosso, sentirla raccontare da loro è stato incredibile. Alcuni legami sono discriminati in Italia, possiamo solo immaginare che cosa abbiano dovuto sopportare nel loro Paese di origine, avevano sul corpo i segni delle violenze subite e il compagno aveva dolori alla schiena per i colpi presi» racconta Castellano, coordinatrice del team composto da dieci persone che operano sette giorni su sette, 24 ore su 24, «perché gli sbarchi non sai mai quando arrivano».

La storia di Faiza, stuprata durante il tragitto

«Quando sono scesi, lei è saltata subito ai nostri occhi, abbiamo pensato che dovevamo parlarci – ricorda la responsabile -, non si sono aperti subito ma un po’ alla volta, grazie alla nostra psicologa. Attraverso la case manager, che fornisce assistenza legale, siamo riusciti a farli inserire in uno dei pochissimi Cas che si occupano proprio di Lgbt. Abbiamo preparato tutti i documenti e li abbiamo accompagnati alla stazione. Avevano intorno ai 24 anni e stavano insieme già da tanto tempo. Cercavano il loro posto nel mondo, ce l’hanno fatta ed erano contentissimi quando ci hanno salutato». Non tutte le storie, purtroppo, hanno un sapore dolce. Anzi. A Roccella è arrivata anche Faiza, che vuol dire “vincente”, una 18enne stuprata durante il tragitto. Il suo sogno era raggiungere la sorella in Germania per poter studiare. Alla fine è riuscita ad arrivare il territorio tedesco. Vincente lo è diventata veramente, ma portandosi dentro i segni della violenza. Nel presidio in provincia di Reggio Calabria arrivano soprattutto dalla rotta della Turchia, ma anche dalla Cirenaica e da Afghanistan, Siria e Iran. Parlano la lingua pashtu o farsi, alcuni l’inglese, pochi il francese. Operatori e Migranti si capiscono con l’aiuto di psicologi e mediatori. «Ci raccontano il dolore di aver dovuto lasciare la propria terra e il viaggio drammatico che hanno affrontato. In Turchia vengono rinchiusi in un luogo al buio dove rimangono anche dieci giorni, poi caricati su dei camion e trasportati alla barca. Ma, durante il tragitto, capita vengano picchiati». Storie drammatiche ma comunque più fortunate di chi arriva dalla Libia «dove vengono tenuti più a lungo nei centri e arrivano con addosso i segni delle torture».

«La cosa che ci preoccupa di più in chi arriva è l’ipotermia»

Medici senza frontiere è presente da marzo a Roccella Jonica, «una comunità molto calorosa e accogliente, abbiamo la collaborazione di tutti, dai cittadini alle istituzioni, alle forze dell’ordine. Questo dimostra che, se si vuole, l’accoglienza si può fare. Ci occupiamo del triage agli sbarchi con un ambulatorio interno alla tensostruttura messa a disposizione dal Comune – racconta ancora Castellano -. In questo momento dell’anno la cosa che ci preoccupa di più in chi arriva è l’ipotermia, che causa la morte in fretta. Se la temperatura arriva a 34 e scende velocemente fino a 32, si va in fibrillazione e diventa difficile il recupero. Viaggiano per almeno sei o sette giorni, attraversano il mare stipati all’aperto, sono bagnati e fa freddo. Negli ultimi sbarchi abbiamo avuto tre casi in cui siamo dovuti intervenire con estrema rapidità per poter salvare loro la vita». Ma spesso le patologie di chi arriva non sono poi così diverse dalle nostre. «Nei bambini stiamo registrando un picco di problemi alle vie respiratorie, esattamente come sta accadendo in Italia con i pronto soccorso pediatrici intasati». Ci sono poi le patologie legate a traumi precedenti. «Abbiamo adulti con ferite pregresse non ancora rimarginate, picchiati durante il tragitto. Poi c’è la scabbia, purtroppo molti hanno ferite infettate da tempo» aggiunge la responsabile di Medici senza frontiere che, di professione, è «un’infermiera contenta di esserlo» come ama definirsi. «A noi infermieri affidano i ruoli di coordinamento perché abbiamo una visione a 360 gradi, vediamo la malattia e la cura ma anche la parte logistica, ad esempio io noto subito se l’ambulatorio va riordinato».

Un team multidisciplinare e strutturato

«Nel mondo umanitario l’infermiere viene valorizzato molto e non messo in secondo piano, come invece accade negli ospedali. In generale, qui si dà una grande importanza alla parte sanitaria – spiega -. Ciò che fa la differenza in Msf è il fatto di essere un team multidisciplinare e strutturato, in cui tutti hanno il proprio pezzo da curare: dal mediatore al logista al capo missione, siamo tutti fondamentali. Anche chi non è sul campo e sta in ufficio e si sbatte per risolvere i nostri problemi. Ognuno fa la sua parte ma non lo fa per sé stesso. Lo fa per l’altro che è vicino a lui. E questo permette risultati grandissimi. Fosse così anche negli ospedali sarebbe perfetto» aggiunge Castellano, che ha lavorato nelle strutture sanitarie prima di dedicarsi completamente alla sua vocazione, lavorando prima in diversi teatri di guerra e poi nel soccorso in mare. Proprio qui, nel grande blu, ha trovato il senso della sua missione. «Ho operato nei contesti bellici ma nulla mi ha colpito e continua a colpirmi come il soccorso in mare. La notte in acqua e al buio è terribile, quando arrivano glie lo leggi negli occhi che stanno pensando “ok, sono vivo”. Sono anni che vedo le persone arrivare su una terra sicura e la cosa che mi sorprende sempre è questo loro sguardo di riconoscenza, come se ringraziassero la vita perché non li ha lasciati andare. Baciano a terra e ti sorridono. E questo sguardo in cui dicono “sono vivo” la cosa più grande». (Agi)

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