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Processo alla cosca della montagna, le ritrattazioni di Antonio Scalise: «Mi hanno usato come uno scudo»

Il figlio del capo cosca dice che i verbali da lui resi «sono tutte cose ricostruite». Punta il dito contro «chi ha fatto le indagini» e racconta di avere subito minacce da «estranei». La moglie su…

Pubblicato il: 20/12/2022 – 17:48
di Alessia Truzzolillo
Processo alla cosca della montagna, le ritrattazioni di Antonio Scalise: «Mi hanno usato come uno scudo»

LAMEZIA TERME «Mi hanno usato come uno scudo di ferro». Le affermazioni di Antonio Scalise, 45 anni, nell’aula Garofalo di Lamezia Terme sono gravissime, a tratti confusionarie, ritrattano tutto ciò che ha fatto mettere a verbale la scorsa estate. Anzi, secondo quanto racconta l’uomo nel corso del processo Reventinum – che si celebra proprio contro la cosca Scalise – «Queste cose – dice riferendosi ai verbali da lui resi – sono tutte ricostruite. Posso solo dire che non è vero. Mi hanno usato come uno scudo di ferro». Lo giura Antonio Scalise – «Vi posso fare una firma mo». Ma chi – chiede il presidente del collegio – chi l’ha usato come uno scudo di ferro? «Chi ha fatto le indagini», risponde Scalise.
Dunque tutto quello che ha fatto mettere a verbale – nel corso di due incontri registrati con gli inquirenti a giugno e luglio scorsi – sulle modalità che aveva la ditta del padre Pino e del fratello Luciano per accaparrarsi i lavori di movimento terra, le dichiarazioni su Francesco Pagliuso (ma qui il pm si è arreso prima di arrivare all’argomento), la conoscenza con Marco Gallo, tutto… è una ricostruzione: «Se ci sono cose scritte sono tutte false», dice il teste. Lascia intendere che tutto quello che è stato fatto da chi ha condotto le indagini è stato come voler costruire una casa partendo dal tetto «e ora crolla tutto».
Antonio Scalise, che nel processo Reventinum è anche imputato per una estorsione, dice di essersi rivolto alle forze dell’ordine perché era stato minacciato. Da chi non si sa. Lui li chiama «quelli della cartella» perché la prima volta che li ha visti «tra fine marzo e i primi di aprile» avevano una cartella con dei fogli scritti. Questi «estranei» lo avrebbero minacciato.

Le minacce e l’attentato con i pitbull

L’udienza ha inizio con la formalizzazione da parte dell’avvocato Ruscio della rinuncia al mandato, per tutti gli imputati da lui difesi, da parte dell’avvocato Antonio Larussa. Una notizia che spiazza un po’ tutti, compresa l’avvocato Chiara Penna che ha appreso la notizia solo alle 9 del mattino e che differisce il proprio controesame e lascia l’udienza a causa di un legittimo impedimento.
La moglie di Scalise, Mirella Raso – sentita prima del marito –, rincara la dose circa le minacce ricevute dal marito. Dice che questi soggetti non meglio identificati lei li ha visti per la prima volta mentre si trovava in macchina col marito e avevano il viso camuffato dalla mascherina e dagli occhiali da sole. Avrebbero minacciato il consorte esortandolo a «incolpare il padre e il fratello per delle questioni che dicono loro». Gli avrebbero puntato delle luci in casa mentre dormivano e in una occasione, ad agosto scorso, avrebbero liberato due pitbull contro il coniuge mentre stava lavorando e «se lo avessero preso lo avrebbero sbranato». «Noi ci siamo rivolti alla legge per il fatto che mio marito è stato minacciato di morte e volevamo essere aiutati», dice la Raso.

Racconti diversi su Marco Gallo

E sul presunto uomo della cosca, Marco Gallo, colui che è già stato condannato in primo grado per l’omicidio dell’avvocato Francesco Pagliuso (commesso per conto degli Scalise come afferma un’altra sentenza di primo grado), Mirella Raso dice di averlo visto solo una volta mentre si recava a casa del suocero Pino Scalise, «io ero fuori e lui è entrato dentro». Il tema Marco Gallo mette in contraddizione le parti. Se la Raso, infatti, racconta di averlo visto solo una volta recarsi dal suocero, lo stesso suocero si affretta a chiedere la parola per fare dichiarazioni spontanee e dire che lui Marco Gallo non lo ha mai visto in casa sua e che lo ha conosciuto solo in carcere. Il marito, invece, alla domanda «lei conosce Marco Gallo?», ha risposto «non proprio», aggiungendo di averlo conosciuto in un bar e che una volta, mentre lavorava su un cantiere a Lamezia, Gallo si sarebbe fermato per chiedere se serviva loro qualcosa. «Non l’ho mai visto a casa di mio fratello e di mio padre, questo lo ha scritto qualcuno», afferma Antonio Scalise. 

I tentennamenti di Mirella Raso

L’interrogatorio di Mirella Raso, 41 anni, sposata con Antonio Scalise dal 1998, comincia con un filo di voce e risposte tentennanti. Passano diversi secondi di silenzio, e la domanda viene ripetuta più volte prima che la donna dica che oggi si trova a essere residente a Parma. La ritrosia delle teste si contrappone alla teatralità urlata dell’avvocato della difesa, Piero Chiodo, che grida le proprie opposizioni tanto da venire rimbrottato dal presidente del collegio che lo invita ad assumere «un atteggiamento che sia consono ad un’aula di udienza». Chiodo si oppone a domande del pm Anna Chiara Reale che nuocerebbero «alla sincerità delle risposte» della teste. Ma il giudice lo invita ad abbassare i toni affinché non siano, al contrario, le sue opposizioni gridate a nuocere alla sincerità delle risposte della teste. A differenza di quanto ha fatto mettere a verbale il 25 luglio, la Raso parla di buoni rapporti con la famiglia del marito. Quest’ultimo avrebbe sempre lavorato col padre e col fratello. Forse potevano esserci dei periodi di ritardo nei pagamenti. Il pm fa una contestazione in aiuto alla memoria: il racconto della Raso di un’occasione in cui Pino Scalise avrebbe quasi ucciso il figlio di botte quando questi si era permesso di chiedergli soldi dopo un lavoro svolto. Mirella Raso risponde che lei non c’era quando è accaduto e forse ha travisato quello che le ha raccontato il marito.
Alle domande del pm Reale sull’atteggiamento della cosca nel farsi rispettare sul territorio, nell’inserirsi nei cantieri, sulle attività illecite, Mirella Raso dà risposte vaghe che terminano quasi tutte con «boh!, non ricordo!, che ne so!».
Il presidente del collegio le ricorda che ha collezionato diverse contestazioni da parte del pubblico ministero, che ha fatto le sue dichiarazioni solo pochi mesi fa, il 25 luglio, e che se non dice la verità incorre in responsabilità penale. Le chiede persino se ha problemi di salute o di memoria. Lei risponde con un secco «Non ricordo».

L’omicidio dell’avvocato Pagliuso che «ha sbagliato a difendere quelli là»

Sull’omicidio dell’avvocato Francesco Pagliuso, Mirella Raso dice di averlo appreso dai giornali. Cosa dicevano i familiari di questo delitto?
«Secondo loro era sbagliato difendere quelli là – risponde Raso – che era successo quel fatto nel bar». Tradotto: secondo gli Scalise era sbagliato che l’avvocato Pagliuso difendesse i Mezzatesta responsabili dell’omicidio di Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo (ritenuti vicini agli Scalise, ndr).
E sulle dichiarazioni circa «la necessità di fare fuori» l’avvocato Pagliuso?
«Io avrò detto che parlavano di vendetta per il fatto che era morto Daniele (Daniele Scalise, figlio di Pino Scalise, ucciso nel 2014, ndr)», dice la Raso.
Ma, quando prende la parola, Pino Scalise si rivolta contro le poche, tentennanti dichiarazioni della nuora.
«Noi non abbiamo mai parlato dell’avvocato Pagliuso, né abbiamo mai impedito di difendere a quelli là». Pino Scalise si spinge oltre e dice che la vicenda del sequestro «non esiste». Mai – dice Pino Scalise – la cosca avrebbe portato l’avvocato Pagliuso incappucciato in una zona di montagna mettendolo in ginocchio davanti a una buca e rimproverandogli mancanze nella difesa di Daniele Scalise. Il vecchio respinge le accuse, dice lui non è stato il mandante di niente, e che all’avvocato Pagliuso l’ha pianto «come un figlio».
Per quanto riguarda i lavori della sua ditta Pino Scalise afferma che sua nuora dei lavori non sa niente perché lui con i figli, il geometra e i suoi dipendenti di lavoro ne parlava solo in ufficio. «Sono tutte menzogne – dice Scalise –. A noi ci chiamavano perché avevamo i mezzi e la cava. Io non ho mai forzato una ditta per farmi lavorare a me». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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