Anche per capire la ‘ndrangheta di Vigevano bisogna partire dall’università di Pavia. Da una manifestazione. Andrea Bellone, giornalista free lance, la ricorda molto bene quell’iniziativa pubblica: «Era il 2011 e l’aula magna dell’università di Pavia era completamente gremita. Ilda Boccassini parlando di mafia in provincia di Pavia prese la parola e ricordò Giorgio Pedone, vicequestore di Vigevano, morto suicida nel 1991. Il magistrato in quell’occasione ne parlò come l’uomo che scoprì la mafia al Nord».
Bellone con Carlo Garimboldi e Simona Satta sono gli autori di un lavoro prezioso, purtroppo non più reperibile e che meriterebbe una ristampa. “Pizza, sangue e videopoker. Come la ‘ndrangheta si è strutturata al Nord, da Vigevano in Lombardia”.
Una città che al tempo del boom ebbe notorietà da un libro del 1962: “Il maestro di Vigevano”. Luigi Mastronardi, l’autore, riuscì molto bene a descrivere quel mondo di provincia. Gli impiegati statali guardavano con invidia sociale i padroncini delle fabbriche di scarpe ricavate dappertutto. Era l’altro volto del boom nascosto. «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste» è l’incipit di un celebre reportage di Giorgio Bocca sul Giorno sulla cittadina lombarda che produceva tre quarti del consumo di calzature italiane. Un magnifico centro storico nella capitale della scarpa. Alberto Sordi interpretò il celebre maestro in un film di discreto successo non molto amato dalla società locale che cercò di impedirne le riprese.
Luigi Mastronardi, nato a Vigevano, nella sua città morirà in circostanze tragiche. Era uscito di casa il 24 aprile del 1979. Cinque giorni dopo un pescatore lo ritrova morto suicida sotto un ponte. Soffriva di depressione.
Anche Giorgio Pedone fu ritrovato cadavere. Aveva 53 anni il 14 agosto del 1991. Lo aspettavano in Comune per consegnargli “lo scarpino d’oro” per la sua opera svolta in 14 anni di polizia a Vigevano. Pedone era stato trasferito a Trieste. La figlia aveva rilasciato un’intervista ad un rotocalco rivendicando il suo mestiere di spogliarellista. Un contadino lo rinviene cadavere in una cascina del Pavese. Si è ucciso con la sua Magnum 357. Una lettera anonima ad un giornale locale alimenterà ancora di più la tesi del mistero e del cold case considerato che vi si legge. «Pedone è stato assassinato e l’assassino era ai suoi funerali».
Ma per dare merito a Pedone basta stare al certo che è tanto, come ha testimoniato pubblicamente Ilde Boccassini.
Il vicequestore negli anni Ottanta parlava di ‘ndrangheta a Vigevano annotando i nomi dell’avvocato Pino Neri e del clan Valle che a Vigevano si erano installati per fare affari sporchi. I Valle con matrimoni tipici di ‘ndrangheta sono federati ai Lampada che hanno segnato la storia di Vigevano e di Milano.
Pedone era uno sbirro da vecchi metodi. Appostamenti notturni sotto le case dei calabresi sospetti, controlli patrimoniali agli stessi indiziati. Il vicequestore inviava i rapporti dei risultati delle sue indagini alla Questura di Pavia, chiedeva il perseguimento dei malavitosi con l’accusa di 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso). Era il 1984 e le sue informative erano rispedite al mittente. Dopo 40 anni le sue intenzioni si sono dimostrate giuste. In quattro processi nessun giudice trovò elementi per far scattare l’associazione mafiosa. Solo usura ed estorsione nelle condanne per don Ciccio Valle e i suoi affiliati. La sentenza finale è quella del luglio 2012. Nel frattempo i Valle si erano arricchiti conquistando bar, pizzerie e i videopoker di Milano e dintorni. Pedone aveva intuito quello che nessuno voleva vedere. Anche quando avevano ucciso Domenico Galimini, autotrasportatore originario di Rosarno e residente a Vigevano, il vicequestore nel suo rapporto a chiare lettere aveva scritto di omicidio di ‘ndrangheta. Pedone in un’agenda durante una perquisizione aveva anche trovato trascritto a penna il rito di affiliazione con Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Quel procedimento fu archiviato. Nel 1992 una nuova cultura investigativa cambia le analisi e valorizza i rapporti di Pedone: «Gli elementi che all’epoca non risultarono sufficienti per ravvisare l’ipotesi di reato di cui all’articolo 416 bis codice penale hanno ora ricevuto dignità di fonte di prova».
A Vigevano hanno operato anche otto clan mafiosi sullo stesso territorio. A Vigevano avviene uno dei primi sequestri di persona al Nord, quello dell’industriale Pietro Torielli. Ma non sono stati i calabresi, piuttosto i siciliani di Luciano Liggio. Che comunque sono alleati. Tra gli anni ’70 e ’90, a Vigevano, Cosa nostra e ‘ndrangheta si spartiscono gli affari: la famiglia siciliana dei Guzzardi, vicina a Luciano Liggio, gestisce il commercio dell’eroina mentre i Valle si occupano di estorsioni e prestito ad usura.
Ma i Valle come e quando sono arrivati a Vigevano in Lomellina?
L’immaginario delle faide di ‘ndrangheta è legato alla sola mafia agreste. Invece anche a Reggio Calabria si sterminarono a vicenda.
Questa è la storia dei Geria e dei Valle. I primi hanno depositi di surgelati a S. Caterina e Reggio Campi. I rivali gestiscono prodotti ortofrutticoli a piazza Mercato. Galeotto un prestito di due milioni dell’epoca non restituito. Domenico Milasi si propone come mediatore per la contesa. Appuntamento alla trattoria dei Geria a S. Caterina. Giovanni Rodà si fa trovare con i cognati Giuseppe Postorino e Giuseppe Geria, Fortunato Valle va anche in rappresentanza del padre don Mico. Ha un revolver. Spara e uccide il mediatore, gli altri feriti scampano alla morte. È guerra. Era l’11 luglio del 1977 e gli anni di piombo non riguardavano solo la politica. Dodici morti e feriti tra i Valle e 6 morti tra i Geria e Rodà.
Francesco Valle, il fratello di don Mico, pur appartenendo a clan di rango, comprende che a Reggio Calabria non si può stare. Cerca la via del Nord ed approda a Vigevano. Sarà una lunga storia quella dei Valle in fuga da Reggio e approdati in Lomellina.
Accumuleranno denaro e potere, schiveranno le inchieste del vicequestore Pedone, ed emigreranno ancora tra Cisliano e Bareggio in provincia di Milano alleati dei Lampada messi in fuga dalla denuncia di una gioielliera, Maria Grazia Trotti, finita sotto usura del clan.
Il loro ristorante “La masseria” era come una banca. Entrano a prendere soldi titolari di agenzie ippiche, pensionati benestanti, commercianti che perderanno i loro beni. Il comune di Pero in vista dell’Expò aveva concesso licenze per aprire un piccolo casinò, una discoteca e un ristorante. Ma i tempi erano cambiati. Il lavoro investigativo del vicequestore Pedone aveva fatto scuola per i carabinieri che scrivono nei loro rapporti: «Francesco Valle detto don Ciccio, risulta essere il capo del clan Valle. Padre di quattro figli, tre maschi e una femmina, don Ciccio è legato alla famiglia mafiosa dei Cotroneo a loro volta federata con i Condello di Reggio Calabria». Interessante anche Giovanni Cotroneo di San Roberto che aveva introdotto i Valle nel Vigevanese dove lui aveva già avviato società operanti nel settore commerciale dell’arredamento per poi inserirsi nel settore edilizio e della ristorazione, acquisendo, nel corso del tempo, cinque pizzerie, date in gestione a personaggi calabresi, utilizzati quali teste di legno.
Aveva avuto fiuto il vicequestore Pedone, anche su questo versante, nel corso di una perquisizione in casa dei Valle in via Oroboni 32 a Vigevano, quando notò, affisso alla parete del salotto di casa, un quadro dal forte significato allegorico, che ritraeva Angela Nucera, moglie del boss Francesco Valle, sofferente, sulla quale vigilava, come angelo custode, la effige di Giovanni Cotroneo. In quella stessa villa-fortino in cui venivano convocati gli usurati e don Ciccio mostrava al malcapitato una foto e diceva: «L’uomo vestito di bianco che vedete nella foto è mio nipote, è latitante ed ha cinque omicidi sulle spalle».
Storie di Vigevano. Nelle librerie non si vende più il libro di Mastronardi. Neanche quello dei giornalisti che hanno raccontato la ‘ndrangheta locale.
Il bar Giada era un quartiere generale del clan seppellito dalle condanne. Nel 2012 da bene confiscato è diventato un centro notturno della Caritas. Maria Grazia Trotti, la gioielliera strozzata dal clan, ha fondato l’associazione antiracket Vigevano libera, la prima registrata in Lombardia. Il vicequestore Giorgio Pedone aveva visto giusto e lungo nei suoi rapporti. Meno male che ancora qualcuno lo ricorda. (redazione@corrierecal.it)
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