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Il summit nel container della frutta e la guerra di mafia sfiorata a Rosarno

La contesa sui terreni tra i Bellocco e i Larosa. Il patto ventennale tradito. Il confronto da b-movie e l’arma nascosta nel marsupio. «Ti sparo diciannove botte di pistola nella faccia»

Pubblicato il: 24/12/2022 – 14:04
di Pablo Petrasso
Il summit nel container della frutta e la guerra di mafia sfiorata a Rosarno

REGGIO CALABRIA «Se si sparava una botta di pistola, meno di Massimo Lamari morivano tutti». È l’incipit del capitolo che, nell’ordinanza dell’inchiesta “Blu notte”, i magistrati della Dda di Reggio Calabria dedicano al summit mafioso del 6 novembre 2019, uno dei momenti di più alta tensione tra le cosche della Piana di Gioia Tauro. La storia inizia alle 8,40 della mattina con una telefonata. Francesco Benito Palaia, uno dei referenti degli affari del clan Bellocco sul territorio, chiama Umberto Bellocco, 39enne ritenuto il nuovo capo dagli investigatori. Gli dice che ha un appuntamento con Massimo “Cita” «che stava cercando di estrometterli da affari illeciti». «Ci stanno buttando fuori da tutte le parti». Prospettiva che non piace affatto al presunto boss: «Imprascalo se devi imprascarlo, io non ho problemi», risponde. La reazione si capisce meglio quando Palaia invita Bellocco a partecipare all’incontro telefonicamente (i due comunicano attraverso un cellulare reso disponibile al boss in carcere). «Tu devi dire – è il suggerimento – l’accordo che c’era venti anni fa rimane. Con te non abbiamo nessun accordo, questo è».

Il patto di spartizione dei territori

Massimo, secondo gli investigatori, è Larosa. E vorrebbe espandere il proprio territorio di influenza. La contesa riguarda alcuni terreni a Galatro, da ritenersi – secondo la distorta suddivisione mafiosa – sotto l’influenza del clan Bellocco. Da una serie di messaggi scambiati tra i protagonisti, i magistrati ricavano «senza ombra di dubbio l’esistenza, da più di 20 anni, di un patto di spartizione dei territori insistenti nel Comune di Galatro, e che i soggetti con i quali era in atto un contrasto erano di Giffone, per cui su Galatro non potevano accampare diritti». Palaia sceglie, d’accordo con Bellocco, di non andare da solo all’incontro. I due hanno la sensazione che il confronto possa degenerare. Previsione corretta. Al boss viene riferito che gli animi, inizialmente tesi, si erano rasserenati grazie alla presenza risolutiva di Massimo Lamari, altro uomo vicino al gruppo. Nelle conversazioni successive, però, Palaia delinea un quadro della situazione assai più drastico.

«Le cose restano come 20 anni fa, ti ammazzo stamattina»

«Siamo proprio arrivati ai ferri corti», dice, e poi chiarisce che «senza l’intervento pacificatore» di Lamari, «la propria controparte sarebbe stata uccisa». Il risultato è, per Palaia, raggiunto («le cose restano come venti anni fa») ma il clima resta teso. La famiglia contrapposta – i Mandaglio presenti all’incontro – avrebbe «preteso soldi» senza averne titolo sulla base dei patti di ‘ndrangheta e sarebbe stata fomentata da qualcuno in quella ribellione. Sarebbe finita in un bagno di sangue – sempre stando al racconto – senza l’intervento di Lamari «che aveva strappato di mano il marsupio con l’arma a Palaia», i cui intenti erano chiari («Gli ho detto io “ti sparo diciannove botte di pistola, ti ammazzo stamattina”»). Il vero nemico sarebbe Massimo Larosa, «il cui sguardo all’arrivo ha subito messo in guardia Palaia che ha detto al figlio minore Rocco Antonio di sparargli subito («gli ho detto a mio figlio “come si muove sparagli in testa subito”»).
«Come ti sei permesso di vendere la montagna a queste persone», è l’accusa che Palaia racconta di aver mosso al rivale Larosa, le cui rivendicazioni «erano prive di fondamento, in quanto non aveva una zona di pertinenza». Si svolge in un container questa scena da b-movie, con la lite che degenera quasi in una sparatoria e una borsetta che passa di mano in mano per evitare che dalle parole si passi al sangue. «Non mi parlare con il dito in faccia», si sarebbe accalorato ancora Palaia, «stai attento come parli che ti sparo diciannove botte di pistola nella faccia. Stamattina tu muori qua». L’ultimo a intervenire è il 42enne Domenico Bellocco, «figlio di Rocco». Ancora Palaia: «È entrato e mi ha detto “Ma che cazzo ti arrabbi a fare che te li ammazzo tutti in una mattina”».

“Mafia nei boschi” e i rancori mai sopiti tra Bellocco e Larosa

«Con noi tu non ti devi permettere nemmeno di venire a parlare». Palaia provoca Larosa e gli dà del «tragediatore» per una storia riguardante la vendita di alcuni terreni. «Io approfittavo con le parole – continua a raccontare – perché dietro di lui c’era Rocco Stilo con una Glock». È in quel momento che il cerchio del racconto si chiude e arriva la chiamata di Umberto Bellocco dal carcere. Lamari «lo rassicura di avere tutto sotto controllo». Ma nel container si è rischiata una carneficina.
Tra Larosa e Bellocco ci sono vecchie frizioni. Risalgono, secondo la ricostruzione degli investigatori, all’operazione “Mafia dei boschi”: le dichiarazioni di alcuni imprenditori boschivi legati al clan di Rosarno avrebbero, secondo i Larosa, provocato grossi guai alla cosca. Vecchi rancori ribollono nella calma apparente della Piana di Gioia Tauro, pronti a riesplodere. Le questioni economiche – la riscossione di alcune somme dalla vendita di un terreno – fanno riaffiorare quell’odio mai sopito. Che si trasforma in uno “sgarro” (Larosa riscuote 20mila euro e trattiene per sé la quota dei Bellocco). Quell’atto di sfida porta al summit che rischia di aprire una guerra di ‘ndrangheta. Questione di destrezza e di centimetri. Sarebbe bastato che Palaia arrivasse a prendere la pistola che aveva portato con sé nel marsupio e il finale del b-movie di Rosarno sarebbe stato scritto con il sangue. (p.petrasso@corrierecal.it)

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