L’aereo atterra a Linate nel tardo pomeriggio. Penetra la trapunta di nubi che aduggia la Pianura Padana e subito il mondo si fa ombroso, diafano, spento. Ma fra i negozi scintillanti dell’aeroporto riecco la luce, questa volta artificiale. E con essa il vitalismo sfrenato delle metropoli e dei loro tanti non-luoghi. Un tassista più grigio delle nubi mi conduce all’albergo. È scesa la sera. Sul fondo lontano del viale, la facciata neoclassica della Stazione Centrale di Milano illuminata d’un viola caldo, con in alto la scritta “Calabria straordinaria”, il brand adottato dalla Regione che riproduce il colore e la forma stilizzata del piccolo fiore della Soldanella calabra, endemismo botanico eletto a testimonial del turismo bruzio.
Fa un certo effetto vedere la più importante stazione ferroviaria d’Italia, nel cuore del Nord razionale, post-moderno, industriale e finanziario d’Italia, illuminarsi dell’altro cuore, quello irrazionale, arcaico, contadino e povero rappresentato dalla Calabria. Mi sento un po’ il colonnello Aureliano Buendía – il personaggio di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez – come fosse stato sradicato dal suo scalcinato villaggio di Macondo, nella giungla colombiana, per essere deportato a Manhattan. Il tassista ferma dinanzi all’hotel. Attraverso la porta girevole ed entro nella hall. Dietro la reception, un bianco dal viso algido e compunto controlla i documenti. Un nero, invece, in livrea verde, mi sorride dolcemente, facendo cenni verso la grande TV che trasmette la finale dei mondiali di calcio in Qatar. Salgo in camera, mi sistemo e scendo giù per incontrare gli altri ed uscire. Ma gli altri sono inchiodati alla TV. I francesi, sotto di due gol, rimontano. Si va ai supplementari: 3 a 3. La roulette russa dei rigori. L’Argentina è campione del mondo. Mi viene spontaneo pensare ad una vittoria del sentimento sulla ragione, ma ad etnie invertite: la squadra della “ragione” occidentale formata interamente di neri, quella del “sentimento” meridionale tutta di bianchi. La ragione neo-illuminista e neo-liberista, il cinismo riduttivista, il dogmatismo, l’universalismo, il mercantilismo, le tentazioni autoritarie dei Nord del mondo, oscurati dall’effimera, sofferta rivincita del suo opposto: il genio sregolato, irrazionale, sentimentale, cerimonioso di tutti i Sud del mondo.
Esco nel freddo della serata meneghina per visitare il vicino “Senstation on ice”, creato per promuovere il turismo in Calabria da Grandi Stazioni Retail, la società che gestisce gli spazi pubblicitari delle 14 grandi stazioni italiane: solo la Centrale di Milano ospita 320.000 viaggiatori al giorno! Sotto la facciata della stazione, un grande campo di ghiaccio pullulante di gente che pattina, fra immagini di mari e monti della Calabria. Uno stand eno-gastronomico offre degustazioni di prodotti alimentari tipici della Regione ed ospita conversazioni per giornalisti specializzati: a quella di domani dovrò partecipare anch’io come relatore insieme a Francesco Cuteri e a Gianfranco Manfredi. Interno della stazione: ancora foto di “calabrie” inedite e, sull’arcata, un grande mosaico d’immagini che accoglie chi scende dai treni ed approda nella “capitale morale d’Italia”. Per una volta nulla che ammicchi alla Riviera Romagnola o al Trentino Alto Adige. Per una volta nulla che sappia di già detto, di già visto, di già fatto.
Il giorno dopo resto rigorosamente in albergo, a scrivere, a leggere, a preparare la conversazione del pomeriggio, che avrà lo strano tema che io stesso ho suggerito: “Calabria, un viaggio nell’esotico d’Europa”, ossia in quel coacervo di “lontano”, “diverso”, “neo-selvaggio”, “neo-autentico”, “neo-pittoresco”, “neo-magico” che tanto attrae i viaggiatori colti. Leggo, fra l’altro, di un politico leghista che protesta per la “profanazione” calabra dinanzi al “tempio” milanese. È incavolato perché gli indiani hanno conquistato Fort Apache. E forse anche perché gli argentini hanno battuto i francesi. Confesso che quando entro nell’igloo che ospita l’evento, con alle spalle centinaia di milanesi e di stranieri che pattinano sul ghiaccio “della” Calabria, che alzano gli occhi verso le foto dei pini loricati, delle cascate, delle foreste avvolti dal viola della Soldanella, e con dinanzi a me i giornalisti del Sole 24ore, avverto un moto di tenerezza: per una volta, Macondo ha espugnato Milano. Esattamente come il tango dei calciatori argentini ha travolto il valzer dei francesi. Che poi, quaggiù (o laggiù, nella terra delle grandi pampas) si sappia fare tesoro di queste piccole, grandi vittorie è un altro problema, un’altra storia. Intanto, spero che qualcuno, fra coloro che si sono spersi per un attimo in questo effimero barbaglio di giungla calabra, provi per i miei “luoghi perduti” ciò che immaginava proprio Márquez ne “L’amore al tempo del colera”: «A poco a poco li idealizzò, attribuendo loro virtù improbabili, sentimenti immaginari, e dopo due settimane pensava solo a loro».
*Avvocato e scrittore
x
x