COSENZA Un declino continuo ed inarrestabile. Un’emorragia che coinvolge il Paese intero, ma che risulta ancor più marcato nelle aree periferiche dell’Italia e del Mezzogiorno in particolare. Quello che si sta sempre più rivelando il lungo inverno demografico – iniziato ormai da circa un decennio – sta producendo veri e propri sconvolgimenti nel tessuto socio-economico dei territori.
Con una popolazione sempre più ridotta al lumicino che fa i conti con l’invecchiamento e con il crollo delle natalità. E neppure la ripresa dell’ingresso di stranieri in Italia riesce a colmare quel divario che scava di anno in anno un solco incolmabile nel saldo naturale.
D’altronde è dal 2014 – stando ai dati dell’Istat – che il calo delle nascite in Italia supera il numero di quanti si trasferiscono nel Paese. E nell’ultima rilevazione dell’Istituto nazionale di statistica emerge un nuovo record negativo per nascita in Italia: circa 4.500 in meno in un anno. E dal 2008 i numeri del fenomeno sono impietosi: 176.410 nascite in meno. Un dato che in termini percentuali si traduce in una flessione di oltre 30 punti (-30,6%).
Un fenomeno, quello della denatalità, che ormai condiziona anche territori che fino a qualche lustro addietro sembravano immuni, come quelli del Mezzogiorno.
Anzi attualmente è l’area in cui la decrescita naturale risulta in caduta libera, tanto da registrare l’andamento peggiore nel Paese. In quasi vent’anni, infatti, cala di 6,3 punti per mille persone. Secondo i dati di Neodemos (foro indipendente di osservazione, analisi e proposta sui fenomeni demografici), a metà del secolo scorso il 37,2% della popolazione viveva nel Sud Italia e da quest’area proveniva circa la metà delle nascite (49,6%). Mentre nel 2022, stando alle analisi dell’osservatorio, il numero di cittadini residenti nel Mezzogiorno è pari al 33,6% del totale degli italiani e ancor minore è oggi l’apporto sulle natalità complessive (35,7%).
Un dato che per un’area particolarmente sensibile ai flussi demografici – visto che sono i territori che risultano meno attrattivi per gli stranieri – si traduce in una sorta di vera e propria desertificazione. Con ripercussioni importanti sulla tenuta sociale-economica di una vasta area che così rischia di marcare maggiormente il divario con il resto del Paese.
Come una sorta di cane che si morde la coda, il Meridione vede ridursi di anno in anno la popolazione e la speranza di invertire la marcia per l’impoverimento progressivo. E le conseguenze si trascineranno negli anni a venire. Visto che anche la proiezione sull’andamento demografico rivela un progressivo depauperamento dei territori.
Una sorte che accomuna anche e soprattutto una regione già di per sè povera come la Calabria.
Passando a setaccio i numeri diffusi dall’Istat, emerge che a settembre scorso la popolazione complessiva era pari a 1.844.708 in calo ulteriormente rispetto a dicembre scorso quando i residenti erano 1.855.454. Dunque in 9 mesi segna una flessione dello 0,58% che segue quanto avvenuto nell’anno precedente con un calo di oltre cinquemila residenti. Un trend inarrestabile iniziato almeno da un decennio. Se consideriamo che nel 2011 i calabresi superavano la soglia dei due milioni. Ed è dal 2008, che il numero delle nascite è inferiore ai decessi portando in negativo così il saldo naturale. Un dato quest’ultimo, da quell’anno, sempre con il segno meno davanti e che è arrivato a toccare il numero record nel 2020 (-7.058).
Numeri che segnano una flessione costante di nascite passate da 18.451 del 2002 a 13.172 del 2021 pari a 28,61 punti percentuali in meno. E che dimostrano con chiarezza il forte processo di impoverimento in atto in Calabria. Numeri che fanno il paio con il fenomeno migratorio che segna anche qui ogni anno un saldo negativo degli iscritti all’anagrafe dei comuni. Tra il 2014 ed il 2021, la Calabria ha perso oltre 42mila residenti. Un combinato disposto che finisce inesorabilmente per abbattersi sulle aspettative di crescita demografica della Calabria. Basti considerare che nel 2021 il numero di abitanti è diminuito rispetto all’anno precedente di 16.015 unità (9.939 per saldo naturale e ulteriori 6.076 per saldo migratorio).
L’altro aspetto da sottolineare è il livello di invecchiamento della popolazione. Anche qui con un tasso di crescita importante. Gli over 65 anni sono passati dal 17,1% del 2001 al 22,9% del 2021. In quell’anno c’erano 4,9 anziani per ogni bambino residente in Calabria, con un indice di vecchiaia che ha raggiunto i 178,6 punti (in Italia è pari a 187,6). E se l’età media nel 2001 era pari a 32,6 anni, nel 2021 è arrivata a 45,2.
Minori giovani e un numero crescente di anziani si tramuta in un cambio radicale del paradigma di politiche che dovrebbero gestire il presente ed il prossimo futuro della Calabria. Se è vero che le previsioni dell’Istat indicano un declino demografico sempre più marcato.
Stando alle elaborazioni dell’Istituto nazionale di statistica, in Calabria nel 2070 la popolazione potrebbe scendere a poco più di 1.200.000 abitanti. Con una percentuale alta di anziani residenti. Un trend che impone servizi adeguati ad una popolazione sempre più anziana e dunque maggiormente attenta all’assistenza socio-sanitaria e alla mobilità. E con una flessione così rilevante di residenti, andrà rivisto anche il sistema di finanziamento di quei servizi. Sapendo che ad un innalzamento dei servizi, corrisponderà un minore apporto di contributi locali per la flessione appunto del numero di residenti-contribuenti.
Modelli da rivedere per garantire servizi adeguati alla popolazione. Ma anche politiche che possano invertire il trend di decrescita demografica della Calabria. Sono i punti salienti della riflessione che Sabina Licursi, professoressa associata di Sociologia generale al dipartimento Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria, lancia sull’evoluzione demografica calabrese. Partendo però da un assunto, «il destino della Calabria non è segnato».
Professoressa, gli ultimi dati dell’Istat confermano il fenomeno del declino demografico in atto in Calabria. Secondo lei è da attribuire esclusivamente a motivazioni economiche o c’è dell’altro?
«Le motivazioni sono complesse, non solo economiche. Per analizzare il fenomeno bisogna indagare anche altri aspetti inerenti alle opportunità di vita che il territorio può offrire. Si resta a vivere e si decide di fare famiglia non solo dove si può contare su un lavoro ben remunerato, ma anche dove altri aspetti del benessere individuale e familiare sono protetti, e nel nostro Paese i divari sociali, in termini di servizi di welfare, opportunità lavorative, infrastrutturazione dei contesti urbani ed extraurbani, sono ancora molto evidenti. Inoltre, come viene argomentato nell’ultimo numero della rivista Il Mulino, dedicato ai divari in Italia, ci sono aree del paese in cui la concentrazione di più svantaggi sociali, genera un impatto amplificato in termini di diseguaglianze di opportunità e di svantaggi individuali».
Se il fenomeno, come è nelle previsioni dell’Istat, dovesse proseguire che futuro attenderà la regione?
«Da anni si parla di “inverno demografico” per descrivere il futuro atteso per la Calabria, e per l’Italia in generale. Con questa espressione, com’è noto, si vuole intendere l’invecchiamento della popolazione residente dovuto, per un verso, all’aumento della aspettativa di vita, e, per altro verso, al calo delle nascite. L’analisi della struttura della popolazione per età consente di notare che il rapporto tra numerosità della popolazione con 65 anni e più, e quella dei bambini (sotto i 6 anni) è squilibrato. A livello nazionale nel 2021 per ogni bambino si contano 5,4 anziani, a livello regionale il valore è di 4,9. Dati in aumento rispetto alle rilevazioni precedenti. Alto è anche l’indice di vecchiaia (rapporto tra la percentuale di popolazione di 65 anni e più, e quella di 0-14 anni): in Italia si attesta a 187,6 e in Calabria a 178,6. L’approfondimento dei fattori che spiegano il calo delle nascite – indagato a livello provinciale anche dal recente rapporto sulla Qualità della vita del Sole 24 Ore – consente di individuare una vera e propria trappola della natalità per il paese, i cui elementi essenziali sono la diminuzione della popolazione in età feconda e l’innalzamento dell’età media al primo parto (in tutte le province italiane le neo-mamme superano i 30 anni)».
Ma sussiste anche una diversificazione territoriale del crollo demografico. Esiste una fragilità maggiore delle aree interne?
«La fotografia scattata dall’Istat consente di notare che la diminuzione di popolazione non riguarda tutti i comuni italiani allo stesso modo. Sono i comuni con un’ampiezza demografica 5-20mila e quelli fino a 5mila abitanti a “tenere” maggiormente. Soprattutto in quest’ultima classe di comuni ci sono anche quelli delle aree interne. Un dato interessante che occorrerà monitorare, ma che certamente non modifica l’allarmante fragilità demografica delle aree interne. La rarefazione della presenza umana in molti paesi continua a essere causa ed effetto della loro marginalizzazione: non si investe in servizi pubblici se ci sono pochi abitanti, ed è più difficile restare a vivere dove mancano i servizi e non ci sono più neanche i vicini di casa. Nella ricerca sulle aree pilota della Strategia nazionale aree interne calabresi (Reventino-Savuto, Sila e Presila crotonese e cosentina, Versante Ionico Serre e Grecanica), nata da una collaborazione tra la Scuola superiore di scienze delle amministrazioni pubbliche e il Nucleo regionale di valutazione e verifica degli investimenti pubblici, abbiamo approfondito la conoscenza delle ragioni di questa estrema fragilità. Sono stati confermati tutti gli indicatori che misurano il deficit di cittadinanza di cui soffrono i residenti delle aree interne (in termini di accesso a servizi sanitari, ad istruzione e mobilità) e si è mostrata la natura politica della fragilizzazione di queste aree, a lungo dimenticate o penalizzate da politiche fatte su misura per i grandi centri urbani. Tuttavia, nei paesi del margine ci sono giovani e famiglie che scelgono di restare, riescono ad abitare la fragilità, manifestano un forte legame con i luoghi, combinano risorse relazionali e ambientali, sviluppano strategie di adattamento per avvertire meno il peso della cittadinanza dimezzata».
Il calo demografico porterà a dover ripensare a nuovi modelli della gestione dei servizi pubblici. Scuola, sanità e trasporti locali, in primis, dovranno essere garantiti nonostante ad esempio la flessione di tributi locali. Come riuscire in questa “impresa”?
«L’accesso a una sanità pubblica di qualità, la possibilità di scegliere l’indirizzo scolastico considerato più adeguato ai propri talenti e alle proprie aspirazioni, l’opportunità di spostarsi sul territorio con i mezzi pubblici non possono dipendere dal luogo in cui si è nati o si vive. La redistribuzione e, quindi, la regolazione pubblica delle risorse e delle opportunità ha l’obiettivo di garantire che sull’intero territorio nazionale tutti siano egualmente cittadini. Per riuscirci servono politiche redistributive coraggiose e anche di lunga durata, che siano non solo in grado di rispondere ai bisogni, soprattutto dove questi sono più acuti, ma anche di tratteggiare il profilo del Paese a cui si vuole somigliare nel futuro. Servono anche politiche place based, che sappiano cioè riconoscere le specificità dei luoghi in termini di bisogni e anche di risorse, che non siano meramente compensative dello svantaggio ma di promozione degli abitanti e delle loro capacità di immaginare e costruire anche servizi su misura, più adeguati a raggiungere gli standard nazionali senza essere standardizzati. Si pensi ad esempio ai servizi pre-educativi: dove ci sono pochi bambini 0-3 anni non si possono adottare modelli organizzativi e di gestione pensati per i grandi centri urbani, ma si possono sostenere iniziative educative di comunità, in cui istituzioni locali, operatori e famiglie sperimentino la costruzione dal basso di interventi rispondenti ai bisogni reali».
L’altro elemento che spicca dai dati Istat è l’invecchiamento della popolazione residente. Dunque la Calabria non è più terra per giovani?
«L’invecchiamento della popolazione interessa ormai anche le regioni del Sud e tra queste la Calabria. Richiamavo prima l’indice di vecchiaia. Sempre analizzando la struttura per età della popolazione si coglie anche il cosiddetto degiovanimento della popolazione calabrese, ossia la contrazione delle classi di età più giovani. Anche questo cambiamento demografico si osserva meglio nelle aree interne della nostra regione. Riprendendo un dato della ricerca citata, nelle aree pilota della Snai in Calabria, nel passaggio dal 2000 al 2020, le classi di età 0-14 e 15-24 anni si sono ridotte, rispettivamente, del 43,3% e del 42,3%, a fronte di una contrazione del 29,4% e del 33,3% in Calabria (-5,1% e -13,9% in Italia). Una vera e propria emorragia, che non solo andrebbe arrestata, ma anche monitorata per lenire gli effetti che potrà avere sulla struttura demografica dei prossimi decenni».
Nel contempo però spingono alle frontiere masse di popolazioni che cercano sponde anche in Calabria. La strada dell’integrazione “reale” potrebbe rappresentare un’occasione per rispondere al crollo demografico?
«Certamente l’accoglienza di singoli e famiglie provenienti da altri contesti, spesso in fuga da guerre o da condizioni di vita insostenibili, rappresenta un’occasione di rigenerazione umana per territori che vivono una condizione di deperimento demografico. La presenza stabile di stranieri “abitualmente dimoranti”, per riprendere la definizione dell’Istat, mette in moto le società locali, richiede e sostiene l’attivazione di servizi (ad esempio le scuole o servizi di cura) e l’economia. I dati, tuttavia, non sono positivi, visto che si è registrata una riduzione della presenza straniera nell’ultimo dato censuario anche a livello nazionale. Occorrerebbe incoraggiare il ringiovanimento demografico anche facilitando la permanenza e la qualità di vita dei nuovi residenti, considerando come risorsa non solo le caratteristiche anagrafiche, ma anche i loro profili formativi e di istruzione che spesso sono medio-alti».
Ritiene che il declino della popolazione residente in Calabria sia un fenomeno ineluttabile o è ancora possibile attivare contromisure per invertirne il trend?
«Nessun destino è segnato. Le fragilità dei territori, anche quelle che attengono agli aspetti demografici, possono essere affrontate, ridotte o superate. Per farlo servono persone e politiche adeguate di lungo periodo. I cambiamenti demografici hanno bisogno di tempo, di tanto tempo: allargare la coorte delle donne fertili, convenzionalmente quelle tra 15 e 49 anni, è possibile solo in un orizzonte temporale ultradecennale; e c’è bisogno di diversi decenni anche per innalzare il tasso di fertilità “giapponese” della Calabria di questi anni, appena 1,2 figli per donna fertile a fronte di un tasso di sostituzione (quello che consente la riproduzione del livello della popolazione) del 2,1. Per intervenire sui trend demografici c’è bisogno delle persone, di quelle che ci sono affinché restino. C’è bisogno dei giovani che vogliono continuare a vivere in piccoli paesi, di famiglie che maturano la scelta di restare o di ritornare o di radicarsi nei margini, in territori contrassegnati dal decremento demografico. C’è bisogno di scelte consapevoli e intenzionali. C’è, poi, bisogno di donne e uomini determinati, con le idee chiare e buone progettualità, disposti a mettere in comune le risorse, le competenze, le idee. Di innovatori sociali e di imprenditori che decidano di stabilire la sede della loro attività in certi luoghi o che continuino a utilizzare il patrimonio relazionale come elemento di senso del loro fare impresa. Non bastano, però, le persone. Richiamavo prima il bisogno di redistribuzione, di politiche dedicate, di un’azione pubblica che svolga un ruolo guida, di interventi che siano a misura di territorio, in grado di individuare le priorità su cui intervenire per un cambiamento che consideri i bisogni ma anche i desideri degli abitanti». (r.desanto@corrierecal.it)
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