Del pastore si pensa che non pensi, gli si fa una carezza e gli si dà una lode come ai bambini, perché anche se di lui si pensa male non è una cosa da dire. Se ne inventano i pregi, inesistenti quanto i vizi che gli si addossano, «se sta nel presepe», si dice, «è per forza buono». Ed è di buon cuore perché avvezzo ai doni. E al pastore delle lodi frega quanto delle ingiurie. Pensa troppo e questo è il suo dramma: sa che il mondo è diviso in gabbie, esci da una ed entri in un’altra. Sull’Aspromonte il guardiano è distratto, i pastori sono così pochi che a volte il sorvegliante imita il pastore, se ne frega. E il pastore è convinto che questa sia la libertà, una gabbia incustodita. Approfitta della distrazione e ne gode, lo fa senza clamore, in solitudine. E non è vero che se ne stia ad aspettare il destino sotto una capanna di fango e frasche, in attesa che la fiumara se lo porti via.
Dorme placido, godendosi il suo fuoco di fumo sotto la musica del temporale. E l’errore è che tutti vogliono parlare degli altri senza esserlo. Mentre al pastore delle altrui esistenze non frega nulla e anche se non lo pensa, perché non gli importa, se dovesse pensarlo penserebbe che lui col presepe non c’entra, e il Cristo lo ama davvero, ma ha troppe pene sue per partecipare a eventi, anche lieti: Heidi in montagna non si è mai vista, la solitudine è immane, come lo è la fatica. Le camminate sono scarpinate infinite che addolorano membra e anima. Quando si ferma la sua schiena si riposa a S, perché lui vive in una casupola di pietra, dorme su una lettiera di ginestra. In montagna non ci sono i cottage che accolgono i milanesi in fuga, col biglietto del ritorno; l’Aspromonte è come la vita un lungo viaggio di sola andata. Ma come sempre, il pastore ha la sua allegria appesa al palo del soffitto a essiccare, l’accompagna al vino di botta e al formaggio, e le sue feste diventano speciali.
*scrittore
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