Mentre l’Italia entro il 2030, cioè tra poco tempo, per impegni presi con l’Europa attraverso il Pnrr, deve rendere obbligo di legge il consumo zero netto di suolo, la Calabria e, in particolare, Lamezia si “differenziano”, vanno in senso contrario, cioè verso l’azzeramento delle aree agricole. Incredibile, ma vero.
Recentemente un fine intellettuale, Gioacchino Criaco, ha scritto che «fanno arrabbiare i politici che promettono roboanti futuri a forza di turismo e prodotti culturali. Fanno ridere gli studiosi che oppongono le tradizioni e i ricordi alla desertificazione». E c’è sicuramente da piangere, invece, per i Piani strutturali che promettono mirabilie per un’inadeguatezza di fondo della classe politica, così come è inadeguato il popolo calabrese messo a tacere, non solo per abitudine storica (perché i calabresi, sì, «vogliono essere parlati», come scriveva Corrado Alvaro, ma purtroppo non sono avvezzi a parlare, a lottare e, forse, anche a capire le dinamiche in atto). Sono storicamente braccia in terre di servizio, caratterizzate da una modernità imposta che ha distrutto quella ricchezza che la natura e la Storia, a fatica e a tratti, hanno costruito. E di questo ne approfittano, a mani basse, politici autenticamente calabresi e una lunga sequela di colonizzatori “interni” che la cronaca, appunto in continuità con la Storia, continua a consegnarci.
A Lamezia la decostruzione della Storia “buona” – non certamente in riferimento a chi dall’interno ci rende tuttora colonia culturale – è iniziata da tempo: la cattedrale delocalizzabile, il “Corso” che cambia direzione e vaga per il territorio, i luoghi tradizionali del commercio depotenziati e desertificati. È, forse, questo il costo della modernità distruttiva che a Lamezia va in senso contrario all’invocata decostruzione (art. 8 della l.r. 25/2022) per liberare dalla cementificazione le aree agricole (Quadro territoriale regionale paesaggistico, Prescrizioni normative, art. 20)? Ci sarebbe anche da chiedere che valore abbia il Qtrp, che assume integralmente le cinque sottozone di cui all’art. 50 della legge regionale 19/2002 come elemento prioritario, per normare la non trasformabilità di queste aree per usi diversi da quello agricolo, e che demanda ai Piani strutturali comunali l’onere di una più esatta definizione delle aree caratterizzate da produzioni agricole in atto e potenziali. Come è possibile che questo importante compito possa essere rinviato da un regolamento (il Reu) ai Piani operativi, quando il Qtrp modifica sostanzialmente i criteri di impostazione degli strumenti urbanistici comunali (Prescrizioni normative, art. 22, c. 5)?
Certamente è proprio urgente fermare il movimento normativo ondivago e obliquo: nel 2017 la Regione introduce una premialità per i Comuni che approvano un qualsiasi straccio di Psc (art. 65, c. 1 bis, l.r. 19/2002) dimenticandosi che, appena qualche mese prima, cioè nell’agosto del 2016, aveva approvato una premialità per Comuni virtuosi a zero ambiti urbanizzabili (Qtrp, Prescrizioni normative, art. 20, lett. C, punto 1). Ma il dato incontrovertibile è che i Comuni, per evidenti ragioni e per fortuna, non hanno fatto una corsa per dotarsi di un nuovo strumento urbanistico generale. Se è vero che, in venti anni, sono soltanto 59 quelli che hanno semplicemente adottato un Piano strutturale.
La modernità promessa dal Piano strutturale di Lamezia somiglia, per molti aspetti, all’illusione disegnata dal Programma di fabbricazione approvato nel periodo più buio della città. Allora, un intellettuale di prestigio nazionale – Enzo Siciliano – scriveva, su un’importante testata nazionale, di Lamezia città di carta. E oggi – come allora – ci sarebbe da augurarsi che rimanga su quegli aridi files magnetici a testimonianza dell’ennesima illusione tentata a danno del territorio nella sua interezza. Un piano proposto oggi, in un momento in cui si registra la desertificazione di città e territori rurali, tra calabresi che abbandonano la propria terra e una popolazione che diminuisce in proporzioni preoccupanti, per la mancanza di attrattività economica, culturale e sociale della Calabria.
Come il vecchio Programma di fabbricazione, qua si può costruire, là no, soltanto perché c’è un “maledetto” corso d’acqua che lo impedisce e più in là un altrettanto “maledetto” mare. E, per superare il limite edificatorio di una faglia, il privato, se è disposto a tutto pur di costruire, avrebbe la facoltà di ricorrere con propri mezzi a redigere una zonizzazione urbanistica a proprio piacimento (purché sia la più grande possibile, almeno di 30.000 mq!) e una microzonazione sismica. Certamente un po’ di arditezza non guasterebbe, solo che di fatto ci si trova davanti a piano strutturato, dimensionato rispetto ad uno squilibrato rapporto tra pubblico e privato, a favore di quest’ultimo in un contesto economico di recessione e di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Una vera confusione tecnica e concettuale che ha come risultato l’azzeramento delle zone agricole, cioè l’esatto contrario del consumo zero di suolo, nonostante una capacità insediativa residuale delle aree urbanizzate pari a circa 300.000 mq di superficie utile residenziale, cui vanno aggiunti i bonus volumetrici diretti e quelli derivanti dalle procedure di pianificazione rigenerativa (lr 25/2022).
Ma non basta. La Calabria e Lamezia, in particolare, continuano a subire una modernità tardiva quanto lesiva, che molto probabilmente si meritano per responsabilità di una Regione protesa ad allungare la sequela di tacche per segnare il numero dei pareri urbanistici favorevoli, deresponsabilizzati e pericolosi. Cito a memoria – per esemplificare – il Forum organizzato dalla stessa Regione per il caso dell’ecomostro di Stalettì, e il monito di Paolo Cecati – allora a capo della Sovrintendenza dei Beni Culturali e paesaggistici della Calabria – che raccomandava, ma a quanto pare inutilmente, di guardare soprattutto al dramma ben più grave e pericolosamente omicidiario causato dall’ecomostro che verrà, materializzato attraverso l’attuazione della lunga sequela di Piani regolatori dei Comuni costieri approvati fino al 2002 e oltre. La responsabilità della Regione Calabria è testimoniata dai milioni di metri cubi di costruito visibili anche dalla Tunisia svilendo il valore delle risorse naturali, unico, vero e antico patrimonio regionale. Per poi trovarsi a piangere, al capezzale del Qtrp, sul cemento versato e autorizzato. Forse Occhiuto, che appare persona responsabile e con una ottima esperienza parlamentare, dovrebbe aprire di più gli occhi, per farsi ringraziare dal paesaggio, dall’economia calabrese e dall’Europa, come esempio di virtuosità amministrativa.
Oggi gli strumenti per impedire la decostruzione di ciò che è rimasto dei valori della Calabria ci sarebbero, ma, prima di valutare la coerenza degli atti comunali con quelli sovraordinati, la Regione dovrebbe verificare la coerenza del proprio operato rispetto alla griglia culturale, tecnica e normativa che (con estenuante fatica, e studiata confusione, a dire il vero) la stessa Regione si è data e continua a darsi. Quale contributo intende dare la Regione per l’«arresto del consumo di suolo» e per le premialità nei bandi di finanziamento a regia regionale (l.r. 25/2022)? E cosa dire del cosiddetto Piano PINqua (pinguemente finanziato) che appare, per strade diverse, come un incidente (politico) di percorso rispetto al sistema delle premialità nazionali e alla direzione (in senso contrario) della pianificazione comunale?
È certamente complesso entrare nelle trame e nei dettagli dove si nasconde il diavolo, ma per comodità è forse utile richiamare alcune semplici considerazioni di carattere generale. Anche se si avverte l’urgenza di chiedere se – per legge – è “auspicabile” (come ricorda saldamente la l.r. 19/2002) il consumo zero di suolo, il suo “contenimento” (l.r. 25/2022), in proiezione del consumo netto di suolo fissato al 2030 dal Pnrr, o, al contrario, il consumo di suolo sic et simpliciter. E, a Lamezia, come può essere ritenuto valido un Documento preliminare approvato nel lontano 2010 e ispirato da un quadro economico, sociale, culturale, demografico (nello specifico da una assai fuorviante «buona tenuta demografica») e normativo datato che non rispecchia assolutamente l’attualità, del tutto cambiata, per effetto di “bonus”, crisi economiche, una pandemia e una guerra che hanno stravolto la realtà? Non è un po’ strano che la Regione inviti a valutare i territori rispetto agli indicatori elementari dei cosiddetti Goal dei rapporti ASviS per gli obiettivi di sviluppo dell’Agenda 2030 e poi si dimentichi di questo supporto in fase di elaborazione dei Psc, proprio in merito alla sostenibilità delle scelte? Non è forse una grave leggerezza richiamare a giustificazione l’autonomia decisionale dei Comuni e, non attendere che, per esempio, è un obbligo normativo ragionare di pianificazione urbanistica attraverso le dinamiche demografiche in atto e potenziali proprio ai sensi dell’art. 3, c. 1, della l.r. 19/2002? «La pianificazione territoriale ed urbanistica si fonda sul principio della chiara e motivata esplicitazione delle proprie determinazioni»: così recita. E siamo proprio sicuri che questi aspetti trovino adeguati spazi nelle determinazioni adottate dai Comuni? È poi proprio vero che – come ha sostenuto la Provincia nel 2016 dimenticandosi di leggere l’adottato Qtrp – le ciclopiche e monoculari aree urbanizzabili siano vitali e obbligatorie? Forse, con la dovuta umiltà, bisognerebbe rileggere e approfondire la conoscenza del Qtrp e la pur datata legge urbanistica regionale secondo la quale il principio del consumo zero di suolo «rappresenta l’obiettivo più apprezzabile ed auspicabile per i comuni che, nel suo perseguimento, si prefiggono di non utilizzare ulteriori quantità di superficie del territorio per l’espansione del proprio abitato, superiori a quelle già disponibili ed approvate nel previgente strumento urbanistico generale (Prg/PdF), ricorrendo eventualmente ad interventi di compensazione ambientale, intesa quale deimpermeabilizzazione di aree di pari superficie» (art. 27 quater, 1° c). E viene da chiedersi: a quale legge di sana economia rispondono le premialità (Reu, art. 61, c. 10) del 200 per cento di volumetria (meccanismo distorto che provocherebbe un ulteriore incremento del già sovradimensionato Piano, peraltro in contraddizione con la l.r. 25/2022 indicante procedure e parametri assai diversi) che altera l’offerta e inquina la domanda di abitazioni con l’unico effetto di abbattere il valore degli alloggi recuperati e di tutti gli altri esistenti, quasi sempre nella disponibilità dei meno abbienti e della classe media in via di estinzione?
Un piano pericoloso, quello di Lamezia, che non tiene conto della responsabilità istituzionale e dello sviluppo sostenibile, incrocio tra i seguenti indicatori negativi: economico (eccesso di offerta rispetto alla domanda), ambientale (in senso contrario all’obbiettivo consumo netto di suolo zero), sociale (abbattimento del valore dell’edilizia esistente con conseguente incremento del degrado urbano).
Come è possibile, poi, che le cosiddette “manifestazioni di interesse” vengano riesumate e peraltro considerate come diretta estensione delle aree urbanizzate, in aperto contrasto con quanto disposto dalla lett. A, punto 1 dell’art. 20 del Qtrp, che ne prevederebbe l’attuazione soltanto «dopo avere raggiunto gli obiettivi principali di sostenibilità riferiti agli ambiti urbanizzati»? E soprattutto in difetto di funzionali opere di urbanizzazione primaria (vedi ad esempio le aree a parcheggio pubblico di quartiere, come documentano gli studi di dettaglio non ben considerati dal supponente Psc)? Cosa dire ancora dell’obbligo della «rigorosa applicazione del DM 1444/’68» relativamente agli standard per la funzionalità dell’esistente (lur 19/2002, art. 20) e – per favorire l’attrattività della città – del vincolo soprattutto civico di considerare gli standard di qualità (lur 19/2002, c. 1 e c.2, art. 53)? Del resto la recente specifica petizione di molti cittadini, presentata in questi ultimi giorni a proposito del fabbisogno insoddisfatto dei parcheggi pubblici, è la testimonianza più evidente.
Ma risulta chiaro che la risposta supponente espressa dall’incredibile “postdatato” strumento urbanistico generale è nel disegno di decostruzione (svuotamento) della città consolidata, evidente prezzo da pagare per tutte le scelte sbagliate e per garantire il dominio di pochi sul territorio, soprattutto dal 2025.
*architetto
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