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l’inchiesta “sisma”

L’omicidio del boss, l’agguato fallito al suo uomo, gli affari. Così il clan Dragone è tornato a far paura

La strategia economica, gli imprenditori complici e il ruolo di Raffaele Todaro, «personaggio forte» della cosca nel Mantovano

Pubblicato il: 11/01/2023 – 6:45
di Pablo Petrasso
L’omicidio del boss, l’agguato fallito al suo uomo, gli affari. Così il clan Dragone è tornato a far paura

CROTONE Raffaele e Giuseppe Todaro, padre e figlio, sono «avvinti da legami strettissimi» con il clan Dragone. Legami di parentela e di affari (questi, in certi casi, riescono addirittura ad avvicinarli alla cosca nemica dei Grande Aracri) con una ‘ndrina che al Nord ha messo solide radici, tanto da emergere «come una delle più potenti e temute, per forza economica e capacità di intimidazione, tanto in Calabria quanto in Emilia Romagna». Nonostante l’eliminazione dello storico boss Antonio nel 2004 e l’affermazione dei rivali Grande Aracri come cosca globale, la prospettiva offerta dall’inchiesta “Sisma” della Dda di Brescia mostra, secondo gli inquirenti, che il clan «è tutt’altro che annientato». 

I 40 anni della cosca Dragone al Nord

Dalla prima, lunga scia di morte, i Dragone escono sconfitti. All’omicidio di Raffaele Dragone nell’agosto 1999, all’indomani della sua liberazione segue la vendetta ordinata dal boss (e padre) Antonio: Salvatore Blasco cade nel marzo 2004 per mano dei giovani nipoti del capoclan. È, però, l’agguato mortale al leader della cosca a chiudere la partita nel maggio 2004. Nicolino Grande Aracri prende il comando da quel momento in poi. Ma sarà proprio un’indagine condotta dalla Dda di Catanzaro dal 2004 in poi a raccontare le infiltrazioni dei Dragone in Emilia Romagna. “Grande Drago”, questo il nome dell’inchiesta, fisserà nel 1982 l’insediamento del gruppo criminale a Reggio Emilia e nelle aree limitrofe, come il basso Mantovano. È nel giugno di quell’anno che Antonio Dragone arriva a Quattro Castella per scontare la misura di soggiorno con obbligo di dimora in quel comune. «Occasione propizia», scrive il gip distrettuale «per far affluire nel Reggiano una serie di affiliati o comunque di soggetti a lui fedeli (con le rispettive famiglie) con i quali riorganizzare le attività criminali del gruppo quali il traffico di stupefacenti (presto esteso alla vicina provincia di Modena e gestito in posizione di netto dominio), le estorsioni (con vittime, almeno all’inizio, quasi tutte provenienti dal Crotonese, siccome più vulnerabili in quanto a conoscenza della pericolosità del gruppo mafioso), i prestiti usurari e la turbativa, con varie modalità, degli appalti edili». Emerge in quegli anni anche un modus operandi: «in sostanza, gli affiliati al clan Dragone costringevano gli imprenditori della zona a versare somme di denaro, a richiedere forniture di materiale o prestazioni lavorative o a cedere in subappalto lavori pubblici» a una ditta “amica” insediata a Pilastro di Marcaria, nel Mantovano. Ditta gestita ance da Salvatore Arabia, cutrese residente a Reggio Emilia e ucciso il 20 agosto 2003 nell’ambito della faida con i Grande Aracri. Oggi gli affari appianano i contrasti, un tempo le mafie imprenditrici sparavano per affermare il proprio predominio. 

Raffaele Todaro, il luogotenente del boss Dragone

Ma torniamo ai Todaro. Raffaele, padre del tecnico che gestiva le pratiche per la ricostruzione dopo il sisma del 2012 a Mantova, ha sposato la figlia dello storico boss Dragone. Un rapporto andato avanti fino a una decina di anni fa. Quel legame, secondo gli investigatori, si è concretizzato «in multiformi e rilevanti apporti al sodalizio criminale». 
Todaro avrebbe avuto, infatti, «un ruolo cruciale» nel periodo di detenzione di Antonio Dragone, del quale sarebbe stato «interlocutore privilegiato» e «cassa di propagazione verso l’esterno degli ordini e delle direttive» necessari a riorganizzare la cosca durante la contrapposizione con i Grande Aracri. «Nel corso dei colloqui in carcere – si legge negli atti – egli (Raffaele Todaro, ndr) ha interloquito con il boss anche in ordine all’ideazione e alla programmazione di fatti omicidiari inseriti nella faida tra clan». Todaro, «longa manus operativa del boss Antonio Dragone», avrebbe gestito un gruppo di imprenditori edili di origine cutrese e operanti nella provincia reggiana per ottenere «l’aggiudicazione di appalti banditi da enti pubblici e privati locali mediante la presentazione di offerte con sensibili ribassi sulla base d’asta». Questi ribassi sarebbero stati possibili «subappaltando le opere a imprese “fantasma”, fungenti da mere “cartiere” impiegate per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, a loro volta utili vuoi per il contenimento dei costi di gestione delle appaltatrici, vuoi per riciclare denaro di provenienza delittuosa».

L’agguato “saltato” nel 2002

Antonio Valerio, uno dei pentiti chiave nel racconto della ‘ndrangheta al Nord, parla – nel processo “Amelia” – di Raffaele Todaro «come “un personaggio importante” e come un “personaggio forte” del clan Dragone». Così “forte” «da aver suscitato i propositi omicidiari dei Grande Aracri» che nel 2002 avevano architettato «un progetto per ucciderlo, poi non portato a termine per un mero caso fortuito». Avevano pensato di eliminarlo quando il capo era in carcere proprio per «annientare quelle che all’epoca sembravano le ultime propaggini operative del clan Dragone». Era Todaro – questo il racconto dei magistrati antimafia – a occuparsi delle proiezioni economico-finanziarie della cosca e a fare da cinghia di trasmissione tra gli affiliati in libertà e gli arrestati, «assicurando anche a questi ultimi il sostentamento e il supporto per le spese legali». 

La riespansione del clan Dragone grazie al «prestigio criminale» di Todaro

È il tempo a cambiare le cose e rivelare che «il clan Dragone è stato tutt’altro che annientato». Giuseppe Liperoti, altro collaboratore di giustizia riconducibile ai Grante Aracri, racconta nel novembre 2018 – davanti alla Corte d’Appello di Brescia nel processo “Pesci” – che «l’incarcerazione della gran parte degli esponenti» della cosca Grande Aracri, «ha comportato la riespansione del gruppo “originario”, aiutata anche dall’accresciuto “prestigio” criminale maturato nel corso degli anni dallo stesso Raffaele Todaro, sistematicamente sfuggito, grazie ad accurate tecniche di mimetizzazione nel contesto economico locale e pur rivestendo un ruolo di primissimo piano, alle attività di indagine svolte nel corso degli ultimi anni». Anche dopo la separazione dalla moglie, Todaro avrebbe «mantenuto contatti con i Dragone-Ciampà», tant’è che avrebbe «continuato a finanziare detenuti appartenenti alla cosca e i loro familiari». Attività nella quale sarebbe impegnato anche il figlio Giuseppe «attraverso regolari consegne di somme di denaro destinate a sostenere i cugini Giuseppe e Antonio Ciampi durante il lungo periodo di carcerazione per l’omicidio Blasco e per associazione mafiosa». (p.petrasso@corrierecal.it)

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