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i misteri della santa sede

Processo Becciu, sette ore di udienza con Chaouqui e Ciferri

Il giudizio sulla gestione dei fondi del Vaticano per la vendita di un palazzo di lusso: ascoltata la dirigente calabrese

Pubblicato il: 13/01/2023 – 21:47
Processo Becciu, sette ore di udienza con Chaouqui e Ciferri

CITTA’ DEL VATICANO Oltre 7 ore di udienza oggi in Vaticano del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato che verte intorno alla compravendita di un palazzo di lusso a Londra. Un’udienza, la 44esima, movimentata, nella quale – riporta l’Agi – sono state ascoltate Immacolata Chaoqui (già membro della Cosea e condannata nel processo per Vatileaks 2) e Genoveffa Ciferri, amica di monsignor Alberto Perlasca. Un’udienza “molto faticosa” come l’ha definita il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone che è dovuto intervenire per tenere a bada intemperanze e polemiche. A inizio udienza sono stati contestati dalle difese degli imputati, il memoriale e la lettera, depositati ieri della giornalista Maria Giovanna Maglie. E’ stato quindi chiarito che il memoriale sarà messo agli atti solo se la stessa Maglie sarà chiamata a testimoniare dal Promotore di giustizia, Alessandro Diddi.  Le due donne hanno dato versioni contrastanti riferendo dei loro rapporti. Da un lato Ciferri ha affermato che Chaouqui le inviava continuamente messaggi e spesso in tono minaccioso, assicurando di agire in concomitanza con inquirenti e gendarmi e di aver suggerito lei l’idea di spacciarsi per un “anziano magistrato” per condizionare il memoriale di monsignor Perlasca, di aver collaborato alle indagini. Chaouqui (originaria di San Sosti in provincia di Cosenza, ndr) invece ha replicato di aver fatto al “99%” telefonate, di non aver millantato niente né minacciato nessuno, di non conoscere neppure la faccia del Promotore di Giustizia o dei membri della Gendarmeria, di non essere mai stata interessata al processo, di aver agito sempre “aggiornando passo passo il Santo Padre” al quale aveva mandato dei “podcast” di Perlasca. Con un unico obiettivo: “Aiutare il Santo Padre a capire la truffa a cui era sottoposto da anni”.  La prima a essere ascoltata è stata Ciferri, consacrata francescana secolare, ex analista e stratega geopolitica del Dis dal 2005 al 2012, ora “pensionata” che vive “da sola” con il suo gatto, “sotto una montagna”, in una casa sotto il Monte Lacerone, nei pressi di Greccio, donata a monsignor Alberto Perlasca, ex responsabile dell’Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato. Tra Ciferri e Perlasca l’amicizia è di lunga data e il rapporto si è solidificato nel tempo, sempre nei limiti del rispetto reciproco: “Ci diamo del lei”, ha detto la teste, anche se ogni tanto usa per il monsignore nomignoli come “volpetto”.    Il legame di Ciferri verso il prelato è così forte da aver fatto sentire la donna in dovere di intervenire nella fase in cui Perlasca, sotto indagine, manifestava forte stress a causa del “grosso combattimento interiore per riferire i fatti”. Perlasca, stando a quanto detto da Ciferri e riportato da Vatican News, non voleva parlare perché “sotto il calcagno” del superiore Becciu.  A casa del cardinale la donna si presenta il 10 luglio 2019 per chiedergli di intercedere con il Papa nel riabilitare Perlasca. Afferma che Becciu faceva promesse ma non le manteneva: “Avevo davanti una persona sfuggente, molto preoccupato”. Per questo lei prima lo minaccia (“Le sarò nemica”, ha confermato di avergli detto sull’uscio di casa), poi decide di agire per altre vie. Tra cui quella di chiamare telefonicamente il fratello del cardinale, Mario Becciu. Nei giorni successivi Ciferri si mette in contatto con la giornalista Maria Giovanna Maglie per riferirle di un presunto “tentato omicidio” nei confronti di Perlasca a Santa Marta, dove il monsignore risiede. Non si trattava altro che di alcune gocce di Valium che un medico del Fas avrebbe somministrato a Perlasca dopo una “crisi isterica”. “Avevo paura che il cardinale volesse eliminare Perlasca. Per giorni è stato come uno zombie, sconvolto dai medicinali”.  Maglie si mette in contatto con l’amica Chaouqui, per chiedere chiarimenti. E la pr, dopo aver raccolto informazioni, chiama direttamente Ciferri, che si era presentata con lo pseudonimo di “Augusta Piccolomini”. Da lì inizia una ‘collaborazione’ tra le due donne fatta di “telefonate anche di due ore per spiegargli tutto”, dice Chaouqui, “di conversazioni solo scritte”, afferma Ciferri. La pr ha detto in aula di aver voluto cogliere questa occasione per far emergere la verità contro il cardinale che secondo lei avrebbe ordinato il suo arresto e avrebbe spinto per arrivare il processo Vatileaks 2, facendola diventare una “reietta”.   Ciferri non aveva detto a Perlasca di essere in contatto con Chaouqui perché aveva sentito dire: “La Chaouqui è come il carbone, chiunque la tocca si sporca”. Secondo Ciferri, in tutti i messaggi e le chiamate la Chaouqui diceva di lavorare di concerto con inquirenti e gendarmi. Cosa che pr nel suo interrogatorio ha invece negato con fermezza, dicendo che in quei mesi aveva solo aggiornato “costantemente” il Pontefice con il quale, a suo dire, aveva riallacciato i rapporti tre anni dopo la fine del processo Vatileaks 2. A proposito del memoriale di Perlasca, Chaouqui ha confermato di averlo incitato perché le sue dichiarazioni fossero sottoposte al Papa. Il modo più veloce, secondo la lobbista, per far sapere le cose a Francesco era di registrare dei “podcast” (più propriamente messaggi vocali), 26 per l’esattezza. La teste li ha depositati oggi nel Tribunale e ha assicurato di averli fatti recapitare al Pontefice. Non esiste conferma del fatto che ciò sia realmente avvenuto.  Durante l’interrogatorio a Francesca Chaouqui (che tornerà in aula il 16 febbraio) si è ripercorsa la carriera della donna e il suo ingresso in Vaticano come commissario della commissione Cosea. Di quel periodo la testimone ha dichiarato di possedere ancora dei documenti in archivio. A lungo si è parlato anche della richiesta della grazia che la lobbista avrebbe presentato al Papa, dopo aver tentato una riconciliazione con Becciu contro il quale si era scagliata sui suoi account social. La spinta era venuta da un tale Piergiorgio Bassi, che “all’epoca si occupava di Ufo”, mentre tramite erano stati il suo padre spirituale, don Carmelo, e l’allora vescovo ausiliare Paolo Lojudice, ora cardinale arcivescovo di Siena. A tali richieste Becciu avrebbe risposto suggerendole di chiedere scusa a lui e di scrivere una lettera al Papa. Secondo la ricostruzione, Chaouqui avrebbe inviato al Pontefice un messaggio chiedendo non la grazia ma una riabilitazione: “Santità, ho iniziato una guerra col cardinale. Ho sbagliato, ho bisogno del perdono”. Ma in una lettera “mi viene negata la grazia che non avevo chiesto”. Per Chaouqui questa lettera, con risposta negativa era tutta opera di Becciu, è la molla che la induce a indagare in proprio sulla vicenda oggetto del processo.  Alla fine dell’udienza, il cardinale Becciu ha fatto una dichiarazione spontanea nella quale ha affermato: “Io ho fatto il sostituto non ho avuto questa facilità di andare dal Papa, di portare ordini”. Strano, per Becciu, anche il fatto che la donna abbia ancora del materiale di Cosea: “Io da quando ho lasciato l’ufficio non ho più nulla. È contro tutte le regole”. Sempre il cardinale ha smentito l’accusa di aver dato “l’ordine di arrestarla e di non aver avuto pietà del suo stato di donna incinta”. Invece si è preso la responsabilità di aver sconsigliato vivamente la sua nomina in Cosea: “Avevo avuto segnalazioni gravi sulla sua persona… Dissi: questa signora non è degna di lavorare qui in Vaticano. Non mi ascoltarono”. Sulla questione della grazia, il cardinale ha dichiarato di aver presentato la richiesta al Papa, il quale però rispose in maniera negativa. (AGI) 

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