VIBO VALENTIA Meno uno. Dopo la cattura del latitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, arrestato ieri mattina a Palermo dai Carabinieri del Ros e dopo trent’anni di fuga, scende a quattro il numero dei latitanti di massima pericolosità inseriti nell’elenco speciale stilato dalla Direzione centrale della Polizia Criminale, facenti parte del “programma speciale di ricerca” selezionati dal gruppo integrato interforze. Tra loro, però, c’è l’ultimo boss di ‘ndrangheta rimasto a piede libero: Pasquale Bonavota. È lui, infatti, il (presunto) capo indiscusso dell’omonima famiglia criminale attiva a Sant’Onofrio, nel Vibonese, e con ramificazioni tra Piemonte, Liguria e Roma. Ma, come un fantasma, un’ombra nascosta, da oltre quattro anni nessuno riesce più a trovarlo, nonostante una caccia serrata dei Carabinieri. Sulla sua testa pende un mandato di cattura internazionale, ma sembra svanito nel nulla.
Dell’erede alla guida del clan Bonavota, nato a Vibo Valentia il 10 gennaio di 49 anni, titolo che gli spetta per discendenza e appartenenza, non si ha più traccia dal 2018, da quel 28 novembre di oltre quattro anni fa è ufficialmente un latitante, proprio all’indomani della condanna all’ergastolo emessa dal gup distrettuale di Catanzaro al termine del processo celebrato con rito abbreviato nato dall’operazione “Conquista”. Due erano stati arrestati subito, Nicola Bonavota e Onofrio Barbieri, anche loro condannati al massimo della pena, mentre Domenico Bonavota è stato catturato solo il 6 agosto del 2020. Per Pasquale Bonavota, però, la sentenza sarà ribaltata clamorosamente a novembre del 2021 dalla Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro: cancellate tre condanne all’ergastolo inflitte in primo grado, quella di Onofrio Barbieri – pena convertita a 30 anni di carcere – e dei fratelli Nicola e il super ricercato Pasquale Bonavota.
Sparito e rintanato chissà dove, Pasquale Bonavota è riuscito anche a sfuggire allo storico blitz “Rinascita-Scott” che ha messo in ginocchio tutte quante le potenti cosche di ‘ndrangheta del Vibonese, scattato all’alba del 19 dicembre del 2019 sotto il coordinamento della Dda di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri. Tra i 334 mandati d’arresto non poteva non esserci quello del capo cosca dei Bonavota. Il suo nome è ritornato d’attualità qualche giorno fa grazie ad un blitz eseguito da un nutrito gruppo dei Carabinieri di Vibo Valentia nel fortino dei Bonavota a Sant’Onofrio, confidando in un rientro a casa in occasione delle festività natalizie, senza successo. Troppo furbo e astuto “Pasqualino” per sbagliare una mossa elementare, l’unico boss di ‘ndrangheta rimasto ancora in libertà. Proprio come un fantasma, il primogenito di Vincenzo Bonavota è riuscito finora a restare invisibile, ma l’arresto di Denaro insegna che, molto spesso, i boss latitanti preferiscono rimanere “a casa”, per controllare meglio il territorio e impartire direttive, contando su una fitta rete di fiancheggiatori.
Sangue, affari milionari e giochi di potere. Quella del clan di ‘ndrangheta dei Bonavota è un corposo capitolo della storia della ‘ndrangheta calabrese, narrato attraverso blitz rumorosi come “Van Helsing”, “Uova del Drago”, “Talita Khum” e “Conquista”, migliaia di pagine e atti firmati da procuratori antimafia e della Dda di Catanzaro, da Nicola Gratteri a Camillo Falvo, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso (solo per citarne alcuni). Sono loro, attraverso l’attività incessante della polizia giudiziaria, a descrivere l’esistenza e la presenza pervasiva e incontrovertibile del potente clan sui territori dell’area vibonese dei comuni di Sant’Onofrio, Filogaso, Maierato e Pizzo, riconosciuta dal “Crimine” di Reggio Calabria. Oltre alle risultanze investigative, a definire i contorni del clan di ‘ndrangheta dei Bonavota ci sono, poi, le dichiarazioni dei maggiori pentiti: Raffaele Moscato, Andrea Mantella ma anche Giuseppe Giampà e Michele Iannello. Fiumi di dichiarazioni e atti d’accusa che inchiodano i Bonavota. «Della ‘ndrangheta, io sto parlando di ‘ndrangheta – ha raccontato Mantella – diciamo della ‘ndrangheta di Sant’Onofrio con i suoi affiliati, se prima gli ordini li dava Vincenzo Bonavota, poi li dava praticamente Domenico Cugliari (…) ci vuole una certa maturità, una certa anzianità per i Bonavota, riconosciuti a Polsi, alla Madonna di Polsi, dove si facevano le riunioni e non di certo si poteva presentare un ragazzo minorenne per fare resoconto dell’affiliazione e tutte queste cose qui, erano conosciuti come una cosa vera e propria, ecco, funziona così, in questi termini, però non è che funzionava così».
L’ascesa del gruppo dei Bonavota ha inizialmente un effetto tale sulle dinamiche criminali legate alle cosche di ‘ndrangheta, da scatenare una delle più violenti e sanguinose guerre. Già perché a Sant’Onofrio erano già insistenti alcuni gruppi ‘ndranghetisti con una lunga tradizione criminale alle spalle tra cui, ovviamente, il gruppo Bonavota e quello dei “Petrolo-Bartolotta”, abituati a coesistere sebbene in modo spesso complicato. Siamo alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 quando e il gruppo Petrolo-Bartolotta – capeggiato da Rosario Petrolo e istigato dai Lopreiato di Stefanaconi – scatenò una vera e propria guerra armata contro la potente consorteria criminale dei Bonavota di Sant’Onofrio, lasciando per strada una lunga scia di sangue e morte, affiliati di entrambi i fronti uccisi barbaramente. L’apice della sanguinosa guerra si raggiunge il 6 gennaio del 1991 quando la cronaca calabrese e nazionale viene sconvolta dalla famigerata “Strage dell’Epifania”. Quel giorno il commando dei Petrolo-Bartolotta, nel tentativo di uccidere tre affiliati al gruppo rivale, fece fuoco nell’affollata piazza Umberto I di Sant’Onofrio, uccidendo due persone e ferendo 13, cittadini inermi ed estranei alle dinamiche criminali dei due clan rivali. Le successive indagini e l’arresto di mandanti ed esecutori cancellò, di fatto, la cosca Petrolo-Bartolotta, lasciando la strada libera ai Bonavota.
È il collaboratore Giuseppe Giampà, in un interrogatorio risalente al 2018, a spiegare come i Bonavota, nel periodo in cui il potente boss della ‘ndrangheta crotonese Nicolino Grande Aracri aveva messo in piedi il progetto di creare una “provincia” di ‘ndrangheta autonoma nel Catanzarese tra il 2010 e il 2011, fossero capeggiati dai fratelli Pasquale e Domenico Bonavota. Dalla morte del capobastone Vincenzo era passato qualche anno e il clan era rimasto saldamente in mano allo zio Domenico Cugliari noto come “Micu i Mela”. L’ascesa del primogenito di Vincenzo Bonavota, Pasquale, inizia poco prima dell’inizio del secondo millennio. «Mio padre ha detto una parola che allora io non capivo perché ero un ragazzo (…) se uno vuole fare il malandrino devi avere pure la mentalità, perché il malandrino, non si fa con il fucile (…) ormai si fa con il cervello, con diplomazia». Da una frase captata dagli inquirenti mentre Pasquale Bonavota è in carcere, emerge quella che è la filosofia dei Bonavota, una sorta di mantra che è poi l’eredità morale di Vincenzo Bonavota portata avanti proprio dal primogenito.
Dalle carte dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, poi, è emersa ancora di più la figura di spicco di Pasquale Bonavota: un temuto killer, al pari di Domenico Di Leo, uno “sgarrista” che portava nella copiata il nome di Umberto Bellocco, appartenente al clan di Rosarno, fino a portarlo a far parte della società maggiore. Per far crescere gli affari della cosca, Pasquale Bonavota parte e supera i confini della Calabria: Piemonte, Liguria e poi il trasferimento a Roma, territori che Pasquale, grazie al sostegno dei vecchi sodali del padre, riesce a conquistare. Nella Capitale, in particolare, Pasquale Bonavota riesce a moltiplicare gli affari e il patrimonio dei Bonavota, grazie al controllo dello spaccio di stupefacenti e ai legami con soggetti criminali influenti e legati alle famiglie romane.
Allo stesso tempo gli affari, in Calabria, proseguono con le estorsioni agli imprenditori locali, gestite dai fratelli Domenico e Nicola, e soprattutto al business dei videogiochi, imposti in bar ed esercizi commerciali, con un unico obiettivo in testa: far crescere il dominio della sua famiglia sul territorio tirrenico per scansare il potente clan dei Mancuso. E così Pasquale Bonavota stringe alleanze sul territorio. Con la famiglia di Rocco Anello si dividono il controllo della costa da Filadelfia a Maierato, con Andrea Mantella si alleò invece per “eliminare” fisicamente i nemici. Pasquale Bonavota viene indicato quale mandante degli omicidi di Domenico Belsito, Raffaele Cracolici, Alfredo Cracolici e Domenico Di Leo. A luglio del 2022, in abbreviato, il gup di Catanzaro ha però assolto Pasquale Bonavota per l’omicidio di Domenico Belsito. Il suo tesoro romano era anche stato al centro di un provvedimento di sequestro di beni disposto dal tribunale di Vibo Valentia. L’arresto di Matteo Messina Denaro dimostra che lo Stato c’è ed è presente e la cattura di Pasquale Bonavota, ora, non sembra più impossibile. (g.curcio@corrierecal.it)
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