«La ‘ndrangheta e le organizzazioni mafiose non dimenticano e lo Stato non può permettere che soggetti che hanno recato un apporto fondamentale e sacrificato le loro esistenze cadano vittima del sistema criminale che hanno contribuito a contrastare». Nella relazione consegnata prima della fine della scorsa legislatura la Commissione parlamentare antimafia ha acceso i riflettori sul sistema di protezione dei collaboratori (i pentiti, per essere più espliciti) e dei testimoni di giustizia, mettendo in luce anche le tante criticità che ancora si registrano sotto questo versante della lotta alla mafia. Quanto ai dati numerici, aggiornati però a svariati mesi fa, l’ultima rilevazione citata dall’Antimafia ha confermato la prevalenza di collaboratori di giustizia provenienti da associazioni camorristiche (35%), mentre la maggior parte dei testimoni di giustizia (41%) ha riferito su organizzazioni criminali di matrice ‘ndranghetista.
In particolare, nella relazione finale della Commissione sono state rappresentate le problematiche evidenziate dalle audizioni dei diretti interessati: tra queste – si legge nel report del Comitato dell’Antimafia che si è occupato di questo capitolo – un «insufficiente coordinamento tra gli organi dello Stato coinvolti nella gestione del sistema tutorio e in particolare tra le Procure distrettuali antimafia e la Commissione centrale e il Servizio centrale di protezione. Spesso ciò può essere fonte di pericolo per testimoni e collaboratori di giustizia. È accaduto così che un testimone di giustizia autore di dichiarazioni accusatorie contro un pericolosissimo sodalizio di ‘ndrangheta sia miracolosamente scampato ad un attentato compiuto ai suoi danni dopo ben quindici anni che non rientrava in località di origine; o che il fratello di un collaboratore di giustizia sia caduto vittima di un attentato portato a termine nella località protetta dove abitava, per mano, secondo le emergenze investigative, di appartenenti alla cosca criminale oggetto delle accuse del germano». Dalle testimonianze rese da diversi testimoni e collaboratori di giustizia è emerso – spiega la Commissione parlamentare antimafia – il fatto che «molti hanno denunciato gravi fatti commessi ai loro danni, carenze normative e un approccio non adeguato da parte dei soggetti addetti alla loro tutela ed assistenza. È stata anche riscontrata una escalation negli ultimi anni di fatti criminosi coinvolgenti soggetti tutelati, che hanno destato l’immediata attenzione del Comitato. Molti sono stati oggetto di disamina e si sono potute cogliere alla loro origine anche carenze normative e criticità ed inadeguatezze del sistema amministrativo di protezione»: le criticità riscontrate hanno riguardato l’aspetto della sicurezza personale di testimoni e collaboratori di giustizia e dei loro familiari, l’aspetto economico e la stabilizzazione patrimoniale e i problemi relativi alla gestione economica dei testimoni e dei collaboratori di giustizia, e le garanzie per la fuoriuscita dal programma di protezione, garanzie non sempre perfettamente adeguate.
Altro vulnus riscontrato dalla relazione dell’Antimafia. «Plurime le voci dei soggetti auditi, sia collaboratori che testimoni, che hanno lamentato la pressoché totale mancanza di assistenza e supporto psicologico da parte della struttura tutoria, soprattutto per ciò che concerne i minori; taluni hanno addotto di aver dovuto fare ricorso a professionisti esterni, e benché autorizzati dal Servizio centrale, hanno dovuto sopportare il relativo onere economico». L’esistenza di «gravi lacune del sistema» è stata confermata dal presi- dente del Tribunale per i Minorenni di Catania, dottor Roberto Di Bella, promotore del progetto “Liberi di scegliere” quanto ha operato a Reggio Calabria: Di Bella – si legge nella relazione – ha sottolineato la situazione di “profonda sofferenza”, determinata dalla assoluta carenza di supporto psicologico dei minori» soprattutto «nella fase iniziale del percorso tutorio, quella che intercorre tra il momento in cui interviene la proposta di ammissione al programma di protezione da parte del procuratore della Repubblica e il momento in cui la commissione centrale delibera l’adozione delle misure, ancorché in via provvisoria. Secondo l’esperienza riferita da Di Bella, in questa delicatissima fase in cui l’assistenza psicologica è fondamentale anche per il prosieguo dell’attività di collaborazione (essa infatti viene spesso scoraggiata dalle difficoltà inziali) è assente ogni forma di supporto, tanto che, nelle vicende venute alla sua attenzione il suo ufficio, competente per i minori coinvolti, si è dovuto attivare “in modo artigianale” ricorrendo alla rete del volontariato e garantendo l’assistenza in questione tramite gli psicologi di “Libera”».
Secondo quanto riportati nella relazione, il “corto circuito” che spesso si verifica nel sistema si è evidenziato nella vicenda dell’omicidio di Marcello Bruzzese, fratello del pentito Girolamo Biagio Bruzzese, avvenuto il 55 dicembre 2018 a Pesaro, città ove abitava ed era stato trasferito in quanto inserito, come i suoi congiunti, in uno speciale programma di protezione dopo che il fratello aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Secondo l’impostazione accusatoria l’omicidio Bruzzese – evidenzia l’Antimafia citando le risultanze investigative – «è maturato quale vendetta nei confronti del fratello della vittima, già organico alla cosca di ‘ndrangheta dei Crea di Rizziconi». Dall’istruttoria svolta – prosegue la relazione – è emerso che Marcello Bruzzese aveva riportato il suo nome e cognome sul campanello e sulla cassetta postale della sua abitazione di Pesaro. La vedova, signora Marilena Piccolo, ha dichiarato nel corso dell’audizione che tale iniziativa del marito era stata autorizzata verbalmente dal personale del Nop )nueclo operativo di protezione) territorialmente competente. Tale circostanza è stata fermamente esclusa dai responsabili degli organi centrali, dovendo il domicilio rimanere segreto per evidenti ragioni di sicurezza. Secondo quanto altresì riferito dall’audita, l’iniziativa predetta era necessitata dal fatto che il marito era privo dei documenti di copertura e che la richiesta di cambio di generalità avanzata da loro e da altri componenti della famiglia Bruzzese non aveva avuto riscontro. La moglie del collaboratore Biagio Girolamo Bruzzese, Patrizia Femia, ha fatto presente che, anche dopo l’omicidio del cognato, non ha chiesto, né intende richiedere il cambio definitivo di generalità, atteso che l’eventuale applicazione di tale misura non le assicurerebbe il mantenimento del posto di lavoro. Diversi collaboratori e testimoni hanno analogamente addotto che il cambio delle generalità ha per loro comportato la perdita del posto di lavoro: hanno infatti dichiarato di essere stati costretti, così come i loro familiari, a lasciare la propria occupazione lavorativa per ottenere o mantenere la misura predetta. Avrebbero infatti ricevuto da parte del Servizio centrale di protezione una diffida di revoca dello speciale programma di protezione per l’ipotesi in cui non avessero abbandonato l’attività svolta».
Ultima carenza registrata dall’Antimafia è quella relativa ai testimoni di giustizia già imprenditori che «subiscono notevoli danni a causa della chiusura dell’attività aziendale conseguente all’ingresso nel circuito tutorio». Per la Commissione parlamentare «lo Stato dovrebbe tutelare con particolare cura gli interessi dell’imprenditore vittima che si determina a intraprendere un percorso di denuncia contro organizzazioni criminali di tipo mafioso, adoperandosi con grande impegno per assicurargli il più possibile la permanenza nella località d’origine. Più volte è stato sottolineato l’elevato valore simbolico rappresentato dalla azione statuale che riesca a tutelare il testimone di giustizia proprio in quel contesto nel quale è maturata l’aggressione criminale alla quale egli ha inteso coraggiosamente ribellarsi. Tale scelta si rivelerebbe certamente uno strumento ” suscettibile di favorire nuove denunce” dimostrando che opporsi alla criminalità organizzata è possibile anche senza “dover fuggire dalla propria terra”… È essenziale che lo Stato si faccia concretamente ed effettivamente carico di tali delicate e complesse problematiche. Perché non abbia più a ripetersi quanto accaduto ai fratelli Giuseppe e Domenico Verbaro, imprenditori calabresi titolari di un’attività di panificazione, che dopo aver denunciato gli appartenenti al clan di ‘ndrangheta autori di attività estorsiva nei loro confronti, inseriti in uno speciale programma di protezione, furono costretti a trasferirsi in località protetta e cessare la loro attività subendo anche il fallimento». (redazione@corrierecal.it)
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