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La lapide a Scigliano e i misteri sulla morte. Caccia al fantasma calabrese del caso Moro

Il “ritorno” del legionario Giustino De Vuono. La Commissione Antimafia: «Mai una ricerca per verificare se sia davvero sepolto lì»

Pubblicato il: 23/01/2023 – 6:45
di Pablo Petrasso
La lapide a Scigliano e i misteri sulla morte. Caccia al fantasma calabrese del caso Moro

COSENZA Il “fantasma” di Giustino De Vuono è riapparso sulla scena del rapimento di Aldo Moro: la Commissione parlamentare antimafia ne ha ripercorso i possibili collegamenti con l’eccidio di via Fani e l’assassinio dello statista in una relazione approvata al termine della scorsa legislatura. Chiunque ne abbia cercato le tracce a Scigliano, paese d’origine del legionario – lo ha fatto Luciana De Luca, giornalista del Quotidiano del Sud sentita come consulente dalla Commissione –, ha potuto confrontarsi con il mito cresciuto nel corso del tempo attorno al killer e, soprattutto, alla sua fama di pistolero infallibile. «Siete fortunati», avrebbe raccontato ai carabinieri che lo arrestarono dopo una rapina. Le due pistole a tamburo che portava con sé nello zaino sarebbero state troppo lontane per essere raggiunte e permettergli la fuga. Il cerino colpito da distanza considerevole con una carabina, la lametta da barba lanciata in aria e ripresa usando la bocca per dare prova di coraggio, le fughe sui tetti e la visita in ospedale alla propria madre vestito da suora quando era ricercato. Mito e realtà si fondono nei racconti dei paesani. 

L’ingresso del cimitero di Scigliano

La lapide e il mistero sulla sepoltura. L’Antimafia: «Mai svolta una ricerca per verificare se sia sepolto lì»

Il Corriere della Calabria li ha raccolti anni fa, nell’estate del 2019, quando sono state scattate le foto (e girato il breve video) che vedete in pagina. Materiale legato a un altro dei misteri che avvolge il personaggio. La tomba di Giustino De Vuono si trova nel cimitero di Scigliano: una sobria lapide con il nome del legionario e una foto. In paese non tutti sono convinti che lo “scotennato”, poco commendevole soprannome del killer, sia effettivamente sepolto lì.

C’è qualche motivo per non bollare la storia come una suggestione popolare. Facciamo un passo indietro: fu un’inchiesta giornalistica di Simona Zecchi, nel 2017, a far sorgere dubbi sull’effettivo luogo di sepoltura di De Vuono. Zecchi concludeva, all’epoca, che alla storia del coinvolgimento del legionario nel caso Moro mancherebbe «una cosa fondamentale: il corpo, il luogo di sepoltura effettivo». Ipotesi maturata dopo un certosino lavoro di ricostruzione. Eccone alcuni passaggi chiave: «A Carinola, in provincia di Caserta, il carcere in cui De Vuono ha passato gli ultimi anni (è morto nel 1994, ndr), sanno soltanto che il detenuto prima trasportato all’ospedale civile di Caserta è morto poi lì di morte naturale. L’ufficio matricole della struttura carceraria non conosce il luogo di sepoltura». Secondo passaggio: «A Scigliano, il comune in provincia di Cosenza in cui è nato De Vuono l’8 maggio del 1940, confermano via e-mail che l’uomo è deceduto a Caserta e che il corpo non ha mai fatto ritorno al paese. Nei comuni lì vicini, così come nello stesso paese, non sembrerebbero rimasti suoi parenti, secondo le verifiche che abbiamo potuto svolgere». Mistero, insomma. Chiarito soltanto in parte dalla presenza della lapide nel cimitero di Scigliano. Resta qualche domanda: perché dal comune avrebbero scritto che il corpo non è mai tornato in paese? Un dubbio che anche gli atti della Commissione parlamentare antimafia sembrano avvalorare, seppure in una nota a piè di pagina. È la chiosa a uno dei passaggi della relazione in cui si spiega che nel centro del Savuto molti non sono «convinti che fosse sepolto nel cimitero di Scigliano». Così i commissari: «Non è mai stata svolta un ricerca per verificare se De Vuono sia davvero sepolto nella tomba del cimitero del paese d’origine».  

Tra fatti e «convinzioni non verificabili» 

Il dubbio è lecito, anche se il crinale è scivoloso. De Vuono, per alcuni, è un fantasma anche da morto. Secondo la ricerca di Luciana De Luca «in paese non vi era alcuna memoria, nonostante l’importanza del personaggio, del trasporto della salma nel cimitero e della celebrazione di un funerale». E, evidenzia ancora la relazione, «era accaduto anche un episodio indicativo quantomeno di suoi contatti ad alto livello. Infatti, verosimilmente negli anni settanta, in un momento in cui De Vuono si trovava libero, era atterrato in un paese un elicottero con a bordo più persone che parlavano francese e costoro cercavano proprio De Vuono». «Da Giustino ci sono delle persone che non parlano come noi», dicevano le anziane signore del paese. A Scigliano sarebbe stato per l’ultima volta «quando girava il disco della Lambada (dunque nel 1989, ndr)». Tutte «convinzioni non verificabili» secondo i commissari. Così come non verificabili sono i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Forse era un killer su commissione, secondo più fonti non è mai stato legato ad alcuna cosca

I colpi a raggiera. «Sul cadavere di Moro c’è la sua firma»

Certezze poche, insomma. Tuttavia, argomenta la relazione, «è anche di comune conoscenza nel suo paese di origine (appunto Scigliano) che De Vuono era in grado di esplodere colpi con le armi da fuoco riuscendo a centrare il bersaglio con una rosa di fuoco a raggiera, cosa che frequentemente faceva esercitandosi in paese o in campagna sparando contro i tronchi degli alberi o contro altri bersagli». Quella raggiera era «una sorta di firma inconfondibile che deve aver alimentato, peraltro, questa sua fama leggendaria». Qui il racconto di paese si collega a «quanto emerso dall’au­topsia del corpo di Aldo Moro che aveva evidenziato come numerosi colpi, all’emitorace sinistro, lo avessero raggiunto, intorno al cuore, la­sciando tale organo praticamente indenne». È la seconda Commissione Moro a concentrarsi sull’ipotetico coinvolgimento di De Vuono nella tragedia dei 55 giorni. La nuova relazione dell’Antimafia richiama l’audizione di monsignor Fabio Fabbri. «Costui – si legge nel dossier – collaborò con monsignor Curioni, il quale aveva seguito passo passo l’intera vicenda della gestione del sequestro e dell’uccisione del Presidente Moro, per conto della Santa Sede. Inoltre, la stessa Commissione Moro II acquisì le dichiarazioni di un testimone presentatosi spontaneamente, la cui identità è tutelata da segreto, ma comunque di certa affidabilità, all’epoca stretto amico dello stesso Curioni». È questa persona a riferire che «quando monsignor Curioni era venuto a sapere di ferite concentrate sull’emitorace sinistro senza l’interessamento del muscolo cardiaco, presenti sul cadavere del Presidente Moro, aveva associato tale tipo di ferite ad una sorta di “firma” corrispondente al modo di sparare di De Vuono». Una conclusione, questa, che il religioso avrebbe tratto perché aveva «svolto le funzioni di Ispettore generale dei Cappellani delle carceri italiane, ove verosimilmente le notizie concernenti l’abilità di tiro del De Vuono erano diffuse». 

Le ipotesi nel libro di Paolo Cucchiarelli

«De Vuono, il legionario calabrese che (forse) uccise Aldo Moro». L'ipotesi in una relazione dell' Antimafia

Il libro di Paolo Cucchiarelli “L’ultima notte di Aldo Moro” ripercorre in dettaglio la storia di quella macabra “firma” sul corpo del presidente della Democrazia Cristiana. E attribuisce proprio a Don Fabbri parte delle considerazioni di Curioni: «Quando Curioni ha visto le foto dell’autopsia ha detto: “So chi l’ha ucciso”. Gli dissi: “Don Cesare, che a dire?” “Guarda qua”. La foto mostrava il cuore tirato fuori dalla cassa toracica, in bella vista, con sei buchi attorno, con sei colpi tutti attorno, senza toccare il muscolo cardiaco. “So chi l’ha ucciso, questa è la sua firma”. Di chi? Io non lo so. Conosco battute che don Cesare tra i denti ha fatto a qualche amico, a qualcheduno. Ha detto: “Questa è una persona che ho conosciuto quando era al Beccaria (il carcere minorile di Milano), da ragazzo. È un killer di professione, assoltato, che poi è espatriato. Ogni tanto ritorna. Ha le commissioni e le fa. Questa è la firma, la sua». Una delle ipotesi di Cucchiarelli è che De Vuono avesse avviato una sorta di trattativa per garantirsi un salvacondotto, poi avrebbe trovato il modo di fuggire in Sudamerica. Di sicuro c’è che è stato scagionato per sempre sin dal primo procedimento grazie alla testimonianza del collaboratore Patrizio Peci e, successivamente, da una informativa del Sismi che ne negava la presenza in Italia durante la strage.

Le schede in Svizzera e Paraguay lo collegano al caso Moro

La scheda della polizia svizzera che collega De Vuono al caso Moro (da “L’ultima notte di Aldo Moro”, Paolo Cucchiarelli, Ponte alle Grazie)

Eppure i sospetti sulla vicenda non finiscono e conducono a piste internazionali. Esiste una scheda della polizia svizzera che ritiene De Vuono complice del delitto Moro (foto accanto). Vi sarebbero – evidenzia ancora Cucchiarelli – tracce del “pistolero” «nell’archivio della polizia del Paraguay. Nelle carte, De Vuono è indicato (…) come uno degli assassini di Moro. Quando la polizia del dittatore Stroessner cerca di arrestarlo per l’uso di falsi documenti d’identità, dall’Italia si sostiene che non ha problemi di tipo giudiziario e neppure “antecedentes policiales”. Dopo l’arresto e l’estradizione, un manto di assoluto riserbo cala su De Vuono. Nessun giudice del caso Moro lo va a interrogare nel carcere di Carinola, a Caserta, e lui minaccia ogni tanto di fare fuoco e fiamme se gli fosse stato ancora applicato il regime di massima sicurezza in cui è morto, ufficialmente, il 13 novembre 1994». Il resto della storia porta davanti a una lapide nel cimitero di Scigliano. Anche i fantasmi ne hanno una. (p.petrasso@corrierecal.it)

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