CATANZARO L’operazione battezzata “Olimpo” è il frutto di una complessa attività investigativa coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, diretta dal procuratore Nicola Gratteri, mirata a disarticolare le più importanti strutture criminali legate alla ‘ndrangheta e operanti sul territorio della provincia di Vibo Valentia. All’alba di oggi gli agenti della Polizia di Stato hanno arrestato in tutto 56 persone tra le province di Catanzaro, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Roma, Palermo, Avellino, Benevento, Parma, Milano, Cuneo, L’Aquila e Perugia.
L’indagine, dunque, ricostruisce e ricollega tra loro tutte le recenti dinamiche criminali legate ai numerosi arresti e le operazioni di polizia che hanno coinvolto, a vario titolo, gli interessi economici delle varie consorterie criminali insediate sul territorio di Ricadi, Tropea e Parghelia, nel Vibonese, con particolare attenzione al settore imprenditoriale e le estorsioni alle strutture esistenti sulla “Costa degli Dei”. Gli inquirenti sono così riusciti, in particolare, a ricostruire la pervasività della ‘ndrina dei La Rosa a Tropea e nell’hinterland del comune costiero, attraverso una spiccata capacità di controllo del territorio su qualsiasi attività imprenditoriale, sfruttando anche il “peso” del nome legati ai passati trascorsi giudiziari della famiglia. Per gli inquirenti, dunque, non c’è alcun dubbio che i La Rosa di Tropea, fossero pienamente «inseriti nel contesto economico locale tanto nelle attività imprenditoriali legate al settore turistico, alberghiero e della ristorazione, quanto nel controllo sul sistema delle forniture nel circuito delle stesse strutture». Tre le figure di spicco in questo quadro c’è, secondo gli inquirenti, Diego Mancuso, esponente di vertice del clan Mancuso dell’articolazione ‘mbrogghia. Grazie all’apporto prestato dal potente boss di Zungri, Peppone Accorinti, sarebbe riuscito a mantenere «un ruolo di primo piano proprio all’interno dell’organigramma criminale che riconduce alla posizione di vertice assoluto che è il boss Luigi Mancuso».
Oltre allo strapotere criminale esercitato sul territorio vibonese, c’è poi un aspetto ancora più preoccupante emerso nel corso dell’attività di indagine coordinata dalla Dda di Catanzaro ovvero la tendenza degli imprenditori del luogo di affrancarsi dal ruolo di vittima e percorrere la strategia dell’utile, assecondando gli interessi della criminalità organizzata, guardando dunque al guadagno sia in termini di garanzia occupazionale, sia nell’ottica di “sottrarre” forniture alla regola della concorrenza. Un vero e proprio sistema di corruttela «diffuso e di derive istituzionali» in grado di incidere profondamente sull’azione della pubblica amministrazione, «condizionandone l’operato in funzione di un’apparente “efficienza” scevra, però, dai principi di legalità, imparzialità e trasparenza».
Dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è emerso anche che, dopo l’arresto di Giuseppe e Luigi Mancuso, la famiglia si era riorganizzata in due fazioni, una delle quali diretta e organizzata da Diego Mancuso, cl. ’53 di Limbadi, finito in carcere. Per gli inquirenti però i due distinti gruppi non hanno affatto rappresentato una “spaccatura” ma, al contrario, un rafforzamento della stessa organizzazione. È in particolare il pentito Andrea Mantella a parlare dell’esistenza di due gruppi, uno capeggiato proprio da Diego Mancuso. Era lui, secondo Mantella, a «riscuotere le estorsioni nel settore edilizio» e vantava interessi nel circuito degli autotrasporti. Secondo Mantella, inoltre, Diego Mancuso, durante un periodo di detenzione «aveva conferito una dote di ‘ndrangheta ad un detenuto di Sinopoli e che operava a Tropea, coordinandosi con la famiglia dei La Rosa». Un altro collaboratore eccellente, Emanuele Mancuso, ha poi riferito che dopo l’arresto dello zio, Diego Mancuso, il figlio Domenico «aveva ereditato il suo potere e che lui stesso si accompagnava a tale soggetto e sapeva tutto delle dinamiche interne al clan, dichiarando che, dopo la scarcerazione, Diego Mancuso si era trasferito al villaggio Heaven di Ricadi, di cui era proprietario, da dove continuava a coordinare le attività del sodalizio».
Attraverso le numerosissime intercettazioni, gli inquirenti sono riusciti a dare riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e ricostruire così le dinamiche interne e il ruolo apicale della famiglia La Rosa. A cominciare da Francesco La Rosa, cl. ’71 di Tropea, fratello di Antonio, cl. ‘62, vertice e capo della consorteria, con il ruolo di individuare i soggetti da sottoporre ad estorsione. E poi Domenico La Rosa, cl. ‘38, padre di Antonio e Francesco, vero punto di riferimento della famiglia dinanzi al quale, secondo l’accusa, si svolgevano riunioni e venivano affrontate le questioni di maggior rilievo legate non solo alla pianificazione delle estorsioni, ma anche alla definizione delle criticità più importanti per la famiglia. C’è, poi, Alessandro La Rosa, cl. ‘94, figlio di Francesco, braccio operativo (anche armato) del sodalizio nelle estorsioni eseguite su mandato dei maggiorenti della famiglia. Tutti finiti in carcere nel corso del blitz di questa mattina. (g.curcio@corrierecal.it)
x
x