L’allarme lanciato dal direttore dell’anticrimine della Polizia di Stato, Francesco Messina, dopo l’ultima operazione compiuta ai danni delle cosche del Vibonese, è sconfortante per diversi motivi. Dal quadro che emerge è chiaro che nessun imprenditore è libero dalle vessazioni del racket.
“La consistente attività estorsiva” insieme alle facilitazione che le cosche trovano nell’attiva e consapevole collaborazione di pubblici funzionari, è un cancro che esisteva già ai tempi delle mie denunce, con le quali ho permesso di portare alla luce proprio questo sistema, allora per lo più sconosciuto. Ma se a distanza di trent’anni non solo il meccanismo e i protagonisti sono rimasti immutati, ma nessuno denuncia, è chiaro che qualcosa non funziona. Non funziona perché c’è la coscienza dormiente di chi piuttosto che ribellarsi subisce in silenzio, è connivente ad un sistema o addirittura lo nega. Non funziona perché la modalità di riappropriazione del territorio ad opera dello Stato, se basata sulla sola azione dei magistrati e forze dell’ordine, diventa una goccia in mezzo al mare.
Per guadagnare davvero terreno serve un moto di ribellione da parte di tutti: denunciare non può essere l’evento straordinario, deve essere la normalità! Allora sì non sarebbe più necessario che il singolo imprenditore che si oppone alla ‘ndrangheta debba essere “deportato” in località protetta, perché se tutti denunciassero la Calabria diventerebbe inospitale non per gli onesti, ma per i criminali.
*testimone di giustizia
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